Vittime della neolingua – Il politicamente corretto è la neolingua dei demoliberalisti finiti male.
Che siano finiti così male, lo confesso, mi dispiace molto non perché meritassero miglior sorte, ma per via del fatto che, nella loro rovina, hanno coinvolto anche noi.
Io, a differenza loro, non mi sono mai spacciata per tollerante, ma sfido chiunque a tollerare gente che da ottant’anni ci fa la predica antifascista (identificando un po’ a casaccio con la parola fascismo ogni fenomeno di oppressione e di negazione della libertà) e oggi ci rinchiude nel più angusto dei recinti: quello del politically correct.
Malgrado ciò non la smettono di predicare libertà urbi et orbi, ma almeno possiamo rinfacciargli la loro spudorata incoerenza quando ci invitano, sì a parlare, ma nei tempi, nei modi, con gli accenti e con gli aggettivi scelti da loro.
Di che si tratta?
Si tratta del fatto che non vogliono interlocutori, ma pappagalli. Non più libertà di parola, ma di ripetizione.
La marea del linguaggio inclusivo travolge tutti; qualcuno, sempre più raramente, riemerge; i più risultano dispersi.
Povera Chiesa
Tra questi, molti vescovi della Chiesa romana tuffatisi non propriamente ad angelo, dalla barca di Pietro.
Eppure, la “religione dello schwa” è l’autostrada per peccati formato extra large o, se volete, di cilindrata 1600cc, roba pesante…da 4 valvole per cilindro.
Malgrado ciò Roma teme tanto di parlare d’ inferno come tanto temeva, cent’anni fa, che i suoi fedeli ci finissero e a forza di non voler pestare i piedi ad alcuno, ha cessato di pestarli persino al suo Nemico giurato che ha sempre maggior libertà (lui sì!) di azione dal caldo tropicale della sua eterna collocazione.
L’inferno al quale credono tutti, infatti, è un altro: è l’esclusione dalla vita sociale e mediatica di chi, per malagrazia o per grazia divina (dipende dai punti di vista), si rifiuta di usare il gergo del liberalista doc il quale, imposto il dogma laico della neolingua, ostacola quella libertà di pensiero e quindi di parola di cui si dice alfiere.
Ma, converrete, nulla tradisce di più il pensiero liberale che un’imposizione, particolarmente se questa riguarda la libertà di espressione. Converrete anche che nulla dovrebbe essere più importante per un prelato che la cura delle anime.
Come mai oggi il prelato teme più di offendere la suscettibilità dei suoi fedeli che la Verità rivelata e trema di più davanti alla gogna che alla geenna?
Il dogma non era il peggior avversario del liberale? Non era il demonio il peggior nemico del sacerdote?
E se credete che il male solo a questo sia circoscritto, avete la vista corta.
La battaglia delle parole
C’è di più e forse di peggio! Questo parlar di lucciole quando di falò si tratta, questo cinguettio tremebondo, questa edulcorazione ipocrita ha una ricaduta psicologica e comportamentale nient’affatto trascurabile.
Se prima era la pratica della fede a regalare la pace interiore e l’azione misericordiosa la gioia di aver contribuito davvero a migliorare la condizione di qualcuno in difficoltà oggi si corre il rischio di attribuire alla parola corretta una forza che non ha.
Nel momento in cui la Parola di Cristo, l’unica che ha potere di vita, non viene più ascoltata, si dà immenso valore a quella vuota e fasulla del nuovo gergo come se dire diversamente abili potesse in qualche modo se non risolvere almeno edulcorare le difficoltà della persona con handicap; come se non parlare più di razze eliminasse la questione delle differenze tra gruppi umani di ceppi diversi e avvicinasse il mondo alla pace.
Rimane un gruppo di ribelli che si rifiuta di aderire alla nuova tirannia. Tra loro solo pochissimi hanno il coraggio di parlar chiaro. Anche tra loro i più se non si schierano, ammiccano, se non ammiccano, tacciono.
Il silenzio in questo caso non è d’oro, ma comunque assai prezioso.
Irma Trombetta