Un viaggio all’inferno: Sahara Occidentale, la guerra dimenticata pt1 – Pubblichiamo in due parti un lungo resoconto autobiografico del nostro redattore Enrico Maselli sul suo viaggio a fine degli anni ’80 alla scoperta del Sahara occidentale e del popolo Sahrawi in guerra con Rabat.
Quando nelle vene ti scorre un sangue capriccioso, contaminato di senso dell’avventura, programmare la tua vita diventa un esercizio inutile; la vita lo farà per te. Tutta la mia storia terrena parla in tal senso.
È il Caso che ha dominato scelte che non avevo mai programmato; un Caso partorito nell’Olimpo da Dei scherzosi, forse generosi ma anche severi e spesso incomprensibili.
Se, sul viale del tramonto non ti resta almeno una storia da raccontare, è come aver buttato la tua esistenza. Perché vivere non è timbrare il cartellino; fare carriera; contare i soldi.
Vivere è poter raccontare di sfide che hai accettato, di occasioni perdute e dei sogni che hai provato ad inseguire, senza mai abbassare la testa. Vivere è poter narrare degli estremi fra un viaggio nel vento gelido di un inverno glaciale a New York con pochi dollari in tasca ed un biglietto di sola andata e breve durata e di quell’altro dentro la fornace delle sabbie sahariane mentre intorno a te due eserciti si affrontano in una lotta senza quartiere e tu sei lì nel mezzo senza saperne il perché.
Polisario anni ‘90
O forse no? Magari, in entrambi i casi, me l’ero cercata.
Mia cugina lavorava come free lance per il giornale Roma. Si era recata ad Algeri per una testimonianza sulla difficile situazione politica in corso fra dimostranti e governo in carica.
Siamo nel 1989. Rinchiusa in un albergo teme per la sua vita; uscire in strada sarebbe da pazzi; intorno si spara ed i lacrimogeni appestano l’aria; essere europei non aiuta, si potrebbe essere scambiati per francesi, cosa non salutare in quel momento. Casualmente entra in contatto con la rappresentanza locale del Fronte Polisario; l’organizzazione politico militare che difende l’esistenza e l’identità del popolo Saharawi in un territorio, quello del Sahara Occidentale, occupato dal Marocco “manu militari” nel 1976.
Al Polisario serve visibilità internazionale e così le offrono la possibilità di visitare i “territori liberati” e di raccontare la loro storia, una storia occultata ai media occidentali. Accetta, pur di sottrarsi al caos di Algeri, e prende un aereo per Tidhouf, punto di accesso verso la RASD (Repubblica Araba Socialista Democratica); il governo illusorio del Polisario, visto che controlla solo estese aride di deserto, sul quale sono presenti piccole oasi come Rabouni; accampamenti di tende e guarnigioni militari, costruite nel nulla di un paesaggio lunare solo perché vicine ad un’importante pozza d’acqua.
La nota rossa dell’occidente
Al su ritorno mi parla di quanto visto, ben documentato da materiale fotografico con il quale allestisce un incontro pubblico per dare voce ed occhi ad una guerra silenziosa che, di fatto, non esiste in quanto non documentata poiché farlo sarebbe imbarazzante per le democrazie occidentali.
Sarebbe ammettere di aver barattato la libertà di un popolo, reso nomade da un’aggressione militare, per difendere gli interessi economici e strategici di Paesi importanti quali Spagna; Francia; Italia; Israele e l’immancabile Stati Uniti.
La posta in gioco sono gli enormi giacimenti di fosfati presenti nel sottosuolo oltre a prospezioni minerarie che parlano di uranio ed altri materiali rari.
Infine, la costa antistante le Isole Canarie, le cui acque sono fra le più pescose al mondo. Il copione è quindi sempre lo stesso, sopprimere chiunque si opponga allo sfruttamento neo capitalista delle risorse africane, usando le collaudate armi di un silenzio intriso di sangue.
Mia cugina non è politicamente schierata e vive questa sua missione con i semplici occhi di una giornalista ingenua.
Nel corso dell’incontro, che avviene in un albergo centrale di Roma, partecipo con forte curiosità, trattandosi di Africa, continente al quale mi sento fortemente legato e di un argomento che ignoro totalmente se non per qualche cosa che avevo letto, anni prima, in una dispensa della raccolta settimanale di “Guerre del Dopoguerra”, Edizioni Ciarrapico.
L’incontro con il Fronte Polisario
Il Sahara per me rimaneva come la Luna, qualcosa d’irraggiungibile e di scarso interesse oggettivo: quell’incontro cambierà tutto. Finita la parte illustrativa, con uno show di diapositive: prende la parola il dirigente del Fronte Polisario a Roma, affiancato da un comandante militare.
Le sue parole mi irritano; penso alla solita cantilena terzo mondista, dietro la cui narrazione falsamente neutrale si nasconde la mano dell’imperialismo russo. A portarmi a pensarla così sono le armi che vedo in mano ai guerriglieri, tutte di provenienza del Patto di Varsavia.
Fucili AK47; mitragliatrici leggere RPD; mitragliatrici antiaeree ZU-23; mitragliatrici pesanti DShK; lanciarazzi RPG-7; fuori strada UAZ e via discorrendo. Parte il mio attacco verbale con l’accusa di essere i soliti comunisti travestiti in cerca di facile pubblicità e finanziamenti per creare l’ennesima republichetta ammantata di falce e martello, quale ulteriore tassello dell’espansionismo di Mosca in quel Nord Africa dove possono già contare sulla simpatia politica di Algeria e Libia.
Un film già visto?
Per me è una storia già vista, in Angola, Mozambico, Rhodesia e Sud Africa. La risposta è spiazzante. Mi viene fatto presente che loro sono in guerra dal 1976 a seguito di un’aggressione unilaterale portata avanti dalla monarchia di Rabat con il supporto dell’Occidente.
Per difendersi hanno accettato le armi da chi gliele dava, senza crearsi problemi e non vi è contropartita se non quella di ambire ad una Repubblica Socialista ma intesa in senso arabo e non marxista; di tipo Nasseriano per intenderci. Essendo loro mussulmani, seppure in maniera laica e non confessionale, non potranno mai abbracciare un’ideologia atea: se l’origine di quelle armi mi dà tanto fastidio bene, ce le passassero i paesi Nato e loro saranno ben felici di sostituirle; quelle armi vengono invece date senza risparmio all’esercito aggressore unitamente ad ingenti finanziamenti e schiere di consiglieri militari, per la maggior parte americani ed israeliani.
L’interesse per l’MSI
I toni sono pacati al punto che la sera andiamo a cena assieme e li riprendiamo il discorso politico. Sanno che sono di destra e, per niente scandalizzati, mi chiedono una possibile apertura verso il ns mondo in generale ed il MSI in particolare visto che dal PCI stanno avendo solo chiacchiere e qualche manciata di aiuti umanitari. La loro filosofia si basa sul pragmatismo non hanno chiusure ideologiche preconcette; si alleerebbero con il diavolo se servisse al bene della loro causa.
Particolare attenzione me la rivolge il comandante militare, di nome Kandut, valoroso combattente; decisamente simpatico e padrone di un ottimo italiano.
È curioso di sapere del mio passato militare ed estremamente attento alla conoscenza che dimostro di avere delle tattiche militari impiegate dagli eserciti rhodesiani e sudafricani, di cui immagina io possa aver avuto una qualche parte diretta, nonostante il mio diniego.
Inizia una nuova avventura
La serata termina con l’invito a recarmi presso la loro “sede diplomatica”, sita vicino a piazza Vittorio. Lo faccio più volte, fino a che, vinte le differenze reciproche, in un clima di rispetto ed amicizia nascente mi viene chiesto se me la sento di andare giù, nel Sahara Occidentale e giudicare con i miei occhi.
In cambio mi chiedono di riuscire, al mio ritorno, a dare una qualche voce aggiuntiva alla loro causa cosa che posso fare essendo un collaboratore della rivista militare Raid ed avendo la capacità di poter organizzare una campagna di scritte sui muri di Roma nonché di attacchinaggio manifesti.
A loro basta la mia parola e mi dicono di prepararmi a partire non senza avermi fatto presente che sarà un viaggio duro e pericoloso e che lo affronterò sotto mia piena ed unica responsabilità.
Annuisco e comincio i preparativi nella totale ignoranza e sottovalutazione del gioco che sto per intraprendere.
Dopo un giro per le bancarelle di cose militari, riempio lo zaino di quanto penso possa servirmi, partendo dagli scarponcini da deserto e da un binocolo con filtri ambra anti riflesso. Molto di quello che scelgo si rivelerà assolutamente inadatto ad un terreno di operazioni estremo con temperature di 50 gradi di giorno e contribuirà a portare il mio disagio fisico ai limiti della rottura.
Non sempre la presunzione paga. Pensavo di sapere tutto o quasi ma mi sbagliavo di grosso e ne pagherò tutto il disagio di scelte avventate, quali calzoni e camicie militari di cotone pesante. Al giro bancarelle affianco quello delle farmacie: pasticche contro la malaria, contro il tifo e la dissenteria; nonché di cloro per sterilizzare l’eventuale acqua bevuta, attingendola dai pozzi.
In questo indovino e non commetto errori poiché è una lezione che ho imparato bene nel mio passato da soldato.
La partenza per l’Algeria
In partenza dall’aeroporto di Fiumicino, siamo in tre: io, mia cugina e Paolo, un fotoreporter della RAI che ha voluto aggregarsi una volta saputo che mi era stata promessa la possibilità di visitare la linea di combattimenti, caso unico per un visitatore europeo; prima di allora concesso solo ad un famoso reporter francese, con un passato nelle Legione. Siamo nei primi giorni di ottobre 1989
Controlli severi all’arrivo; riconoscimento bagagli ai piedi dell’aereo; posti di blocco della polizia sulle strade principali; ulteriori controlli e perquisizioni nella sala aspetto dell’albergo.
È il biglietto di arrivo in un’Algeria dilaniata dal confronto militare con i guerriglieri fondamentalisti del FIS, finanziati dal Marocco e quindi dagli USA. Ma Algeri è solo la prima parentesi di un viaggio che mi porterà nell’estremo sud-ovest del Paese, a Tindouf, sede di un importante base militare algerina.
Anche qui controlli pressanti all’aeroporto misti a sguardi d’intesa con altri europei in arrivo, tutti appartenenti ad organizzazioni umanitarie di cui, pensano, anche noi facessimo parte.
La frontiera
Un vero posto di frontiera verso l’ignoto di cui mi piace subito l’aria che si respira fra ragazzi e ragazze sorridenti dalle tante lingue differenti, sotto gli occhi non sempre attenti di militari abituati a tanto frastuono. Fuori ci aspetta una vampata di calore che ti toglie il fiato ed una Toyota Cruiser blue con l’amico Kandut alla guida, ovviamente senza aria condizionata.
Lo sguardo mi cade subito su di un AK47, malamente nascosto sotto il sedile di guida: si comincia bene. Nell’attraversare la piccola cittadina mi stupisce la sua vitalità fra le stradine, piene di bancarelle chiassose e gente che si muove come se il caldo torrido non li riguardasse; ci fermiamo a comprare delle bottigliette d’acqua, sopprimendo, a fatica, il mio desiderio per una birra gelata, fosse pure la Peroni che detesto.
Questa birra me la sognerò inutilmente per due settimane, essendo la reperibilità d’acqua a giocare il suo ruolo preminente, nel semplice meccanismo della sopravvivenza.
L’incontro con i Saharawi
Dopo un’ora circa di guida arriviamo in una località chiamata Robouni, sede del governo provvisorio della RASD, la Repubblica Araba Saharawi Democratica. Un palazzetto arroccato su di una duna ove viene pianificata la strategia del Fronte Polisario, ala politico militare dello Stato in costruzione.
Nostro punto di arrivo è un insieme di costruzioni basse in muratura, con al centro una sorta di gazebo, dall’aspetto confortevole e ben ombreggiato.
Siamo arrivati alla Reception, punto d’incontro delle mille realtà internazionali che supportano volontariamente il popolo Saharawi con ogni sorta di aiuto di cui possano disporre: da quello in denaro a quello in cibo e medicinali.
La parte del leone la fa la rappresentanza di “Medici Senza Frontiere” che gestisce il locale ospedale da campo; si muovono come ombre, avvolte in camici bianchi, giovani e meno giovani di ogni parte del mondo: sono infermieri e medici che hanno sacrificato le loro ferie od addirittura l’intera vita professionale per venire a dare una mano, del tutto gratuita, ad un popolo volutamente ignorato, dimenticato e massacrato nel sangue per non turbare i sogni di un Occidente tanto interessato nei suoi affari quanto nel non voler vedere i danni che arreca ad una popolazione pacifica, spodestata, con le armi, dai suoi agevoli territori costieri per essere poi rilegata nell’inferno di una sabbia rovente che parla del nulla geografico.
Vita nell’inferno sahariano
La sorpresa è che questo popolo, dopo aver sepolto i suoi morti si è reinventato una vita nell’inferno sahariano ed ha risposto, all’aggressione, con le armi, evitando l’annientamento fisico e costringendo l’esercito marocchino ad arroccarsi su una linea difensiva, super fortificata.
Ma di questo ne parlerò dopo, in maniera dettagliata.
Arrivare alla Reception è come scoprire Disneyland. Sotto la bandiera sventolante del Fronte Polisario si erge un complesso abitativo assolutamente confortevole date le circostanze.
Gli edifici ove alloggiano le varie delegazioni sono immacolati e freschi all’interno; vi è la doccia, il bagno turco e dei materassini, nelle varie stanze, ove depositare il proprio sacco a pelo. Poi vi è la mensa che serve pranzi accettabilissimi, basati su patate, fagioli, cipolle, pesce secco e carne ovina, se non fosse per le fastidiosissime mosche potrebbe passare per un normale ristorante etnico.
Non scarseggiano neanche le verdure fresche, provenienti dal vicino orto, coltivato in maniera talmente ordinata da sembrare maniacale, opportunamente irrigato da una sorgente di acqua tanto cristallina quanto incredibilmente fresca. Acqua che poi converge in un grande vascone ove, se non fosse pura eresia, ti verrebbe voglia d’immergerti poiché, all’aperto vi sono almeno 45 gradi che ti tagliano le gambe. Vi è poi anche una piccola centrale telefonica ove è possibile chiamare casa, sia pure fra mille rumori di fondo e linea non sempre facile da prendere.
Le telefonate si pagano come è giusto che sia.
Insomma, niente avamposto alla Beau Geste ma un vero hotel a 5 stelle lì dove non me lo sarei mai aspettato.
Lo spettacolo della notte
I primi giorni li passo in tranquillità, cercando di adattarmi fisicamente alle severe condizioni ambientali e girando i dintorni, in una sorta di menu turistico preconfezionato per fini propagandistici. Visito l’ospedale, tenuto in maniera immacolata; le tendopoli dei Sarawi, costretti a diventare nomadi nella propria terra ed un deposito militare ove sono raccolte distese di armi e mezzi catturati ai marocchini.
Ovviamente siamo ai film Luce o quasi, tutto ben organizzato per fini propagandistici. Il momento più bello è la sera; quando il sole tramonta in un gioco di sfumature colorate che ti lasciano a bocca aperta, interrompendo finalmente quella morsa di fuoco che ti strangola durante il giorno.
Dopo il tramonto il cielo, da viola diventa di un blue intenso di una limpidezza che io avevo già conosciuto ma dimenticata una volta rientrato in Italia.
Poi, a poco a poco, appaiono le stelle come smeraldi che sembra ti caschino addosso tanto sembrano luminosi e vicini. Rimango incantato a guardare questo miracolo della natura e penso valga tutto il sudore che ho buttato per arrivare a quel punto. È un incanto che t’ipnotizza nella sua bellezza selvaggia.
Where are you from?
Con il naso all’insù non sono il solo ma tutti gli europei che, dopo cena, si radunano ritualmente nel gazebo, inteso come meeting point dove farsi una sigaretta, bersi una bibita ed iniziare a conoscersi; il “where are you from” è la domanda più ricorrente. Qui faccio conoscenza con una ragazza svedese di Medici senza Frontiere che mi spiega il perché abbia scelto di andar lì e quale fosse la finalità dell’organizzazione a cui appartiene; un’organizzazione benefica presente in ogni teatro di guerra.
Più parla e più i miei pregiudizi verso di loro si affievoliscono: si saranno pure di sinistra ma quello che fanno è encomiabile, operano in teatri complicati, difficili, pericolosi e sempre in prima linea.
La ragazza mi affascina e non solo perché sia carina ma per il suo coraggio e la visione che ha della sua vita, a soli 20 anni. Decisamente mi fa riflettere, facendomi sentire alquanto bigotto e miope verso un mio modo pregiudizievole di giudicare gli altri. Diventiamo amici e, come lei ha fatto della sua vita io inizio a raccontargli della mia.
Alla fine, mi fa “non importa che io e te la pensiamo differentemente, l’importante è che siamo tutti e due qui a dare una mano, io a modo mio, tu a modo tuo”. Decisamente una bella lezione di vita che, progressivamente, mi porterà a rivedere tanti capitoli del mio libro esistenziale.
In partenza per il fronte
Dopo alcuni giorni da “turista” della serie “avventure del mondo”, si presenta Kandut, facendomi presente che è stata accettata la mia richiesta di visitare il fronte, visto il mio passato militare. Ci viene chiesto di firmare una dichiarazione di totale assunzione di responsabilità per poi prepararci a partire la mattina successiva.
Racconto la cosa alla mia amica svedese che mi guarda dubbiosa augurandomi buona fortuna.
La voce va in giro e, la mattina successiva, al momento della partenza sono tutti sul piazzale a vederci caricare le cose sulla Land Rover Sabre ed ammirare il ns look militare, anche se al collo non abbiamo armi ma macchine fotografiche, per il momento almeno. Sembra la scena di un film preso in prestito da “Addio alle Armi” con gente mai conosciuta prima che si avvicina a stringermi la mano e darmi pacche sulle spalle.
“non fare cazzate”
Arriva anche la mia nuova amica che, guardandomi dritto negli occhi, mi fa “ricordati che non è la tua guerra, non fare cazzate” per poi baciarmi con fare preoccupato; il suo intuito femminile aveva capito che qualcosa si stava muovendo nella mia testa, qualcosa di pericoloso. Lo capisce anche Kandut che, prendendomi da parte mi fa “sai usare un AK se fosse necessario?” Alla mia risposta affermativa mi indica una coperta arrotolata che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
Senza accorgermene, la guerra di un popolo di colore era diventata anche la guerra di uno che, fino al giorno prima, si riteneva un suprematista bianco. Il perché è difficile da spiegare. A poco a poco avevo preso ad ammirare l’orgoglio e la tenacia di quel popolo invisibile; a subire il fascino dei bambini che mi guardavano con quegli occhi che potevano andare dal blue al nero, sempre sorridenti nonostante avessero il nulla fra le mani e l’ombra di un futuro inesistente, costruito fra sabbia e tende provvisorie sulle quali erano appesi i dipinti del territorio perduto, pitture che riproducevano paesaggi marini che non riuscivo proprio ad immaginare ma di cui intuivo il dolore di chi ve ne era stato scacciato con la forza. La metamorfosi era iniziata in me non mi abbandonerà più.
In viaggio nel deserto
Il primo giorno di viaggio verso il fronte è di una durezza incredibile: il caldo tocca i 50 gradi, le mosche ti assediano senza respiro; ogni tanto ci fermiamo sotto qualche sparuto albero di Acacia per farsi una sigaretta e bere la razione d’acqua che ci spetta per poi improvvisare un qualche cosa da mangiare mai disprezzabile poiché sempre accompagnato da pane caldo cotto sotto la sabbia e da qualche zuppa di patate, cipolle e fagioli.
Non è il mangiare il problema ma l’ambiente spettrale che mi circonda, rovente oltre ogni mia immaginazione: e poi gli occhi sempre rivolti al cielo nel timore di un qualche ricognitore marocchino che potesse avvistarci ed agire di conseguenza.
E poi viaggiavamo senza bussola, Kandut si muoveva a memoria seguendo dei contorni nel deserto che io proprio non riuscivo a distinguere; per me era tutto uguale ma non per lui. Più dei ricognitori temevo il poterci perdere od un guasto meccanico, proprio lì nelle bocche di un inferno senza possibile via di uscita.
Per darmi coraggio
Fossi stato credente mi sarei sicuramente raccomandato ad un’eventuale croce che portavo al petto ma, al collo, avevo una piccola ascia bipenne per darmi quel coraggio che iniziava a vacillare.
Ma gli Dei erano con noi ed arrivammo all’accampamento militare senza grossi problemi, fra il movimento di uomini e mezzi leggeri che si apprestavano ad attaccare il muro fortificato marocchino. Muro che raggiungemmo la mattina successiva, alle prime luci dell’alba.
Eravamo diversi chilometri ad est di dove l’offensiva era in corso e di cui intravedevamo il bagliore delle esplosioni e dei traccianti.
Un muro di sabbia e pietrisco che scorreva, per duemila km, dai confini del Marocco a quelli della Mauritania, tagliando longitudinalmente quello che un tempo era noto come Sahara Spagnolo, poi ribattezzato Sahara Occidentale.
2.000 km in un nulla incandescente popolato da iguana, serpenti, scorpioni e guerriglieri del Fronte Polisario, autentici fantasmi del deserto, tale era la loro abilità nel colpire duro ed all’improvviso per poi sparire, insieme ai loro fuoristrada scoperti, fra le dune, i dirupi lasciati da corsi di acqua prosciugati da millenni ed i cespugli di acacie. Invisibili ad ogni ricerca aerea, pur effettuata dai sofisticati aerei Hercules C-130 muniti di radar a scansione laterale, forniti dal governo americano a quello di Rabat.
I primi colpi con i marocchini
Dalla soglia della duna ove ci eravamo appostati, si poteva nitidamente vedere una postazione marocchina situata a circa 300 metri, figure di soldati perfettamente silouetttati sul fondo chiaro del muro; il tiratore saharawi prese la mira con il suo fucile di precisione, impossibile sbagliare da quella distanza ma l’assenso di far fuoco non venne per timore di scoprire la ns posizione e metterci in pericolo.
Kandut, scherzando, mi chiese se volessi sparare io; la tentazione era grande, da italiano verso i marocchini avevo un conto storico in sospeso ma feci segno di no, mancando di ogni dimestichezza con il Dragunov, l’arma da cecchino disponibile; per levarmi un capriccio avrei potuto fare grossi danni a tutti i presenti, non era il caso; inoltre, quasi certamente, avrei mancato il bersaglio.
Non siamo a Gardaland
Nel frattempo, al riparo della duna, i Saharawi montano un mortaio da 82mm e tolgono la linguetta di sicurezza alle granate. Parte primo colpo, decisamente lungo, richiamandoci tutti alla realtà che non siamo a Gardaland; è il primo di una serie di 5 colpi di disturbo che debbono servire a tenere sotto pressione le linee nemiche, impedendo ai soldati avversari di rilassarsi e d’intervenire a sostegno delle guarnigioni già sotto attacco per poi spingerli a dispendiose risposte, in termini di munizioni che non tardano ad arrivare: sono colpi da 120 mm.
3 nell’arco di pochi minuti; assolutamente innocui tanto sono fuori bersaglio; ne vediamo le vampate e la sabbia che si alza in totale sicurezza; almeno 100 metri da dove siamo posizionati.
Nella logica difensiva, adottata dall’esercito marocchino, le postazioni di mortaio da 81 e 120mm e degli obici da 155 mm venivano posizionate a circa due km dal primo perimetro murale dai cui punti di osservazione dovevano poi seguire le coordinate di tiro.
Particolarmente temuti gli obici sudafricani G5, con portata fino a 30km ed indice di precisione altissimo se ben usati, fortunatamente non era il caso di chi avevamo di fronte.
Parte il nostro secondo colpo più preciso seguito, puntualmente da una pioggia di tiri di risposta, proiettili da 120 e 155 mm che alzano colonne di fumo e sabbia mentre il pietrisco vola pericolosamente sopra le nostre teste; sappiamo che stanno sparando a casaccio ma non bisogna chiedere troppo ad una fortuna che potrebbe decidere di voltarci le spalle.
Ci consoliamo con le migliaia di dollari che siamo riusciti a far sprecare all’artiglieria avversaria.
Enrico Maselli