Un trumpiano alla guida del congresso

Un trumpiano alla guida del congressoUn trumpiano alla guida del congresso – Alla fine, è Mike Johnson – rappresentante della Louisiana, giurista costituzionale, appoggiato e benedetto da Trump, oppositore di aborto e unioni gay, critico sulla politica di aiuti all’Ucraina – il nuovo speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti.

La sua elezione chiude un patema nato ad inizio ottobre in seno al partito repubblicano con un inedito voto di sfiducia contro lo speaker in carica, Kevin McCarthey, ottenuto grazie ad un blitz del trumpiano di ferro Matt Gaetz che, con una pattuglia di rappresentanti della destra repubblicana, si è unito ad una mozione di sfiducia promossa dai democratici, che nelle intenzioni dei dem doveva essere meramente simbolica e priva di chiare possibilità di successo, che ha silurato McCarthey, reo, agi occhi della componente intransigente dei repubblicani, di eccesiva arrendevolezza verso Biden e i democratici.

Nell’ordinamento americano lo speaker è un ruolo tutt’altro che di mera forma, visto che gestisce il calendario dei lavori della camera bassa del Congresso, decidendo se e come portare in votazione in aula proposte e decreti, la quale ha competenza di politica fiscale e, quindi, sostanzialmente tiene i cordoni della borsa del governo federale.

Un perpetuo braccio di ferro

Dalla riconquista della maggioranza alla Camera da parte dei repubblicani nel corso delle elezioni di mid-term del 2022, i rapporti con la Casa Bianca erano iniziati a diventare complicati, tanto da obbligare le parti, Camera dei Rappresentanti e Casa Bianca, ad una complicata e lunga negoziazione nel corso dei mesi di maggio e giugno per trovare un precario accordo sul finanziamento del colossale deficit di bilancio americano.

Molteplici i temi oggetto di contestazione dai repubblicani: si va dai fondi ritenuti eccessivi per la sovvenzione di stati a città a guida dem in deficit di bilancio con fondi federali, al finanziamento dei costosi piani di Biden di sovvenzione all’industria e all’economia (inclusi i piani di intervento “green”), alle continue richieste di finanziamento per l’Ucraina (che ormai hanno ben superato i 100 miliardi di dollari, attestandosi a circa uno 0,5% del gigantesco PIL a stelle e strisce).

Il nodo ucraino

Sia chiaro: una larghissima maggioranza di eletti repubblicani approva comunque la politica di sovvenzione all’Ucraina e tali proposte di finanziamento sono passate con larghissime maggioranze bipartisan. Ciò non toglie che tra i rappresentanti eletti con un placet dell’ex presidente Trump, sempre più in corsa per le primarie del 2024, vi siano varie voci critiche verso tale approccio. Si va, con diverse sfumature, da chi chiede un taglio sic et simpliciter dei finanziamenti, a chi ne chiede una semplice revisione e una maggior condivisione a carico dei partner europei, a chi chiede che parte di tali fondi venga invece investita per la sicurezza del confine con il Messico, a chi chiede semplicemente maggiore trasparenza al governo di Kiev nell’utilizzo dei fondi etc…

La vittoria di Trump

Successivamente alla rimozione di McCartheny, fallita subito la candidatura di Steve Scalise, candidatura che si immaginava di mediazione tra l’anima trumpiana del partito e quella maggiormente istituzionale, si è avviato un braccio di ferro nel partito, con i trumpiani che per tre volte hanno cercato di far passare Jim Jordan, fallendo nel tentativo ma bocciando in ogni caso la controcandidatura del neocon Tom Emmer, bollato immediatamente come “globalista” da parte di Trump.

Il confronto, in definitiva, sembra esser stato vinto dal campo trumpiano, poiché sebbene Johnson non sia vicino all’ex presidente quanto Jordan, è in ogni caso un uomo riconducibile alla fazione degli uomini di Donald.

Questo, come già detto, per quanto Johnson si sia affrettato a precisare di essere genericamente a favore di una continuazione della politica di sostegni per Kiev, potrebbe porre degli ostacoli a Biden nell’ottenere nuovi assegni in bianco per la guerra.

Non a caso, la Casa Bianca, approfittando anche della guerra in Palestina, essendo ben noto che, salvo sparute voci critiche, il sostegno per Israele è sempre bipartisan e indiscusso, sta cercando di far passare una sola maxi-richiesta di finanziamento da oltre 100 miliardi, unendo le richieste di nuovi fondi per Kiev (che dovrebbero essere circa 60miliardi, ritenuti sufficienti per coprire i fabbisogni fino al termine delle elezioni del 2024) a quelle per Israele (e in subordine per Taiwan).

Difficile, tuttavia, che la figura di Johnson possa agevolare tale percorso e probabilmente il Congresso si orienterà sempre più per una scissione della questione israeliana da quella ucraina, quest’ultima destinandola ad un progressivo disimpegno.

Aspettando il 2024

Il tutto ovviamente con la grande incognita delle elezioni presidenziali del 2024 che pongono seri punti interrogativi per entrambi i partiti.

Da parte democratica, infatti, nonostante le vociferazioni su una candidatura del governatore della California, l’iperliberal Gavim Newsom, ufficialmente la linea è sempre quella di ricandidare Biden, nonostante il palese stato di decadimento cognitivo dell’anziano presidente e i bassi indici di gradimento.

Da parte repubblicana, invece, Trump resta largamente in testa nei sondaggi per le primarie, dato stabilmente oltre il 60% di gradimento, distaccando nettamente il principale sfidante, il governatore della Florida Ron De Santis che oscilla attorno ad un mero 15%, con Trump al momento intoccato dalla raffica di processi (ad orologeria verrebbe da dire) che sono stati aperti in prossimità dell’annuncio di ricandidatura.

La magistratura prova a fermare The President

I processi, che vanno da accuse di frode fiscale, falsificazione di dati di bilancio della Trump Corporation, impiego indebito di fondi della campagna elettorale, distrazione di documenti sensibili dalla Casa Bianca e azioni indebite per mutare il risultato elettorale del 2020 (notoriamente denunciato come fraudolento da parte di Trump), al momento non hanno intaccato il consenso dell’ex presidente, tuttavia non si può escludere che si possa arrivare, anche tramite un impiego decisamente strumentale dei tribunali, ad un clamoroso arresto di un candidato alle presidenziali a campagna elettorale in corso.

Insomma, da un’America sempre più polarizzata arrivano segnali incerti per il futuro.

Al momento, la nomina di Johnson alla Camera è un punto a favore del campo trumpiano.

A Kiev avranno preso nota.

Filippo Deidda