La Volkswagen si avvia ad un piano di ristrutturazione estremamente drastico, che passa attraverso la chiusura di ben tre stabilimenti in Germania.
Sembrava già spaventosa la prospettiva della fine di una sola fabbrica, un evento mai verificatosi in tutta la storia della grande casa automobilistica tedesca, ora le proporzioni della tragedia sono addirittura triplicate. L’obiettivo della manovra è un risparmio di 4 miliardi di euro, ottenuto anche mediante una riduzione degli stipendi del 10%.
Il modello renano
È la fine, si spera temporanea, di quello che era un modello del capitalismo cosiddetto renano, ossia un capitalismo corretto dalla partecipazione degli azionisti – tra cui figurano fondi collegati ai dipendenti – alla gestione quotidiana dell’impresa, insieme ai dirigenti e ai rappresentanti dei dipendenti.
Una forma di co-gestione le cui radici affondano nelle intuizioni della socializzazione, di cui ci sarebbe traccia anche nell’art.46 della nostra Costituzione.
Queste radici cominciarono ad essere tradite già in occasione del Diesel Gate e sono state ulteriormente recise dall’atteggiamento remissivo della VW – insieme a tutti gli altri costruttori del settore auto – nei confronti del bando 2035 alle endotermiche imposto da Bruxelles.
La follia 2035
Bastava poco a capire che quella folle misura, oltre che essere inattuabile, avrebbe trascinato il settore in una catastrofe senza precedenti, eppure i vertici delle case automobilistiche, tutti senza eccezione, risposero “signorsì!”.
A distanza di poco tempo – ma sempre troppo per i tempi dell’economia – cominciano a levarsi le prime voci di allarme.
Ecco allora che alle denunce dei vertici della Toyota, che avvisano sulla non praticabilità e sulle conseguenze della misura, fa seguito l’appello del CEO della BMW, Oliver Zipse, ad annullare il divieto di vendita di auto nuove benzina e diesel dal 2035.
Finalmente!
Ma comunque troppo tardi, perché una parte del danno è già stata prodotta. Il clima di incertezza derivante dai deliri UE si è ripercosso sulle vendite, con un crollo delle immatricolazioni europee nel luglio del 2024 pari al 18,3% rispetto allo stesso mese del 2023.
Per le auto elettriche il calo è stato addirittura del 44%, segno che, forse, gli utenti non le gradiscono più di tanto e, se proprio devono comprarle, si rivolgono alla concorrenza cinese, imbattibile sui prezzi. Come una nemesi storica, inoltre, arriva anche la notizia della chiusura di una fabbrica Audi di auto elettriche, con sede proprio a Bruxelles.
I dati ANFIA
Nel frattempo, apprendiamo dall’ANFIA – Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica – che il governo italiano ha tolto ben 4,6 miliardi dal fondo automotive, costituito nel 2022 per supportare il comparto automobilistico nella costosissima e sciagurata conversione ecologica.
Si tratta di un taglio dell’80%. Dove andranno quei soldi? In parte alla Difesa. D’altra parte, la NATO ha “chiesto” che gli Stati membri destinino almeno il 2% dei rispettivi PIL alle spese militari e lo scorso 10 luglio Giorgia Meloni ha prontamente risposto “agli ordini!”. Non bastassero i fiumi di denaro che continuiamo a destinare alla guerra in Ucraina, ora abbiamo questo ulteriore balzello atlantico.
Prima che sia troppo tardi
È fin troppo facile ora dire che la sola strada logicamente percorribile è quella della revoca immediata e definitiva del bando del 2035. Ma nel frattempo chi pagherà per questi disastri economici, per la perdita di queste migliaia di posti di lavoro, per il deterioramento di un tessuto industriale che era un’eccellenza mondiale?
Non certo il verde olandese Frans Timmermans, ideologo del criminale Green Deal UE, non Lady Von der Leyen, capace di confermarsi Presidente della Commissione Europea nonostante lo scandalo Pfizer, e tantomeno il segretario generale della NATO, Mark Rutte.
Sappiamo però con certezza chi se ne avvantaggerà: la Cina.
Raffaele Amato
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