Tragedie sul lavoro: ne sfortunate ne ineluttabili – Al momento, si danno già per scontate cinque vittime tra i lavoratori edili impegnati nella costruzione di un grande edificio commerciale in via Mariti a Firenze. Non si conoscono ancora nel dettaglio i particolari del tremendo crollo che ha investito gli otto uomini, presumibilmente impegnati nel getto di uno dei solai del complesso commerciale che ospiterà un supermercato Esselunga.
Da quanto riferito dai sanitari che hanno prestato le cure ai feriti, sembra che gli operai arrivati in ospedale fossero letteralmente ricoperti di cemento fresco.
Questo indicherebbe certamente che si stavano eseguendo lavori nei solai e il cui cedimento o spostamento potrebbe aver determinato una serie di crolli a catena, con distacco di travi, come si evince dalle riprese delle telecamere di sorveglianza.
La composta indignazione delle istituzioni
Come sempre in questi casi di tragedia sul lavoro, si assiste alla “composta indignazione” delle istituzioni.
E anche in questo caso veramente grave, le prime reazioni non sembrano discostarsi dal solito cliché se non con qualche piglio polemico in più visto il clima preelettorale. Sicuramente nel giro di pochi giorni sapremo nel dettaglio e con dovizia di particolari che cosa abbia determinato il tremendo crollo.
Più difficile, invece, stabilire se la sciagura si sarebbe potuta evitare se qualcuno avesse fatto ciò che sarebbe stato suo dovere fare.
Oppure, se il dramma abbia caratteri di sfortunata ineluttabilità.
Tendenzialmente, si dovrebbe escludere questa ultima ipotesi, vista la tipologia di costruzione interessata dal crollo.
Pertanto, non è sul fatto che fosse o meno prevedibile che si devono valutare le eventuali responsabilità, bensì sull’analisi di quanto si sarebbe potuto fare – e casomai non è stato fatto – per evitare questo incidente.
La tragedia di Brandizzo
Basti pensare alla sciagura di Brandizzo di pochi mesi fa, dove morirono sul colpo, investiti da un treno, cinque addetti alla manutenzione delle linee ferroviarie: in quel caso senza dubbio la tragedia si poteva evitare – sarebbe bastato non far circolare i treni durante le operazioni di manutenzione -, ma non si è fatto!
Se veramente ci fosse anche questa volta un “si poteva evitare ma non è stato fatto”, saremmo di fronte all’ennesimo, pessimo risultato causato dal non essere stati in grado di adattare il progresso tecnologico, culturale ed economico che contraddistingue i nostri tempi alle nostre esigenze e alle nostre debolezze di esseri umani.
Se è vero come è vero che il progresso, soprattutto quello culturale, viene stimolato anche da una informazione e da una stampa all’altezza di formare una opinione pubblica attenta e critica, c’è da chiedersi quale altra emergenza sociale dei nostri tempi – quale sicuramente è quella della media di tre morti al giorno per infortuni sul lavoro.
Le malattie professionali invisibili sui media
E non si contano qui quelli che muoiono per gli effetti delle malattie professionali che si evidenziano a distanza di anni! – risenta di una così scarsa “copertura” mediatica, tanto da rimanere scarsamente visibile alla pubblica opinione.
Sembrerebbe quasi che parlarne oltre il necessario, oltre all’immediato, generi una tristezza non compatibile con l’idea di lavoro e di società che ci vogliamo sforzare di credere di vivere. L’altra sera, nel telegiornale di prima serata, si è avuta l’impressione che la giornalista della Rai fosse quasi imbarazzata, a fronte di una notizia di rilievo internazionale come quella della morte di Navalny, ad aprire il notiziario coi servizi sulla tragedia di Firenze.
L’impressione che molti hanno è quella che, alla rappresentazione pubblica dei “danni da lavoro” – ovvero dei morti, dei feriti, dei malati e della sofferenza che si registrano nel mondo reale dell’occupazione – consegua una percezione tra la gente che non è la stessa che troviamo su altri temi della vita civile.
Forse, che alla gente non piaccia intristirsi inutilmente con notizie di morti e feriti sul lavoro? Eppure, tutti devono e dovranno lavorare e non sempre si possono scegliere o si potranno scegliere “lavori non pericolosi”.
Non se ne vuole parlare, delle morti sul lavoro, pensando che sia sufficiente e necessario solo questo per scongiurare il ripetersi di tali eventi?
Semmai, dovrebbe essere il contrario: parlarne tanto e ancora, fino a quando non si sono trovate soluzioni definitive.
Omicidio sul lavoro?
Anche l’amministrazione della giustizia nel nostro paese gioca un ruolo determinante nel definire i contorni di quella che si può denunciare come una “moratoria delle coscienze” sul triste fenomeno degli infortuni sul lavoro e che agisce trasversalmente, interessando oltre che l’opinione pubblica anche ambiti istituzionali che, invece, ne dovrebbero essere esenti, proprio perché posti a tutela del cittadino lavoratore.
Dai commenti raccolti nell’immediatezza del fatto di ieri, emerge la proposta d’introdurre nel Codice penale la fattispecie di “omicidio sul lavoro”, al pari di ciò che è stato fatto introducendo il reato di “omicidio stradale”; ma il problema non sono le definizioni, bensì le pene.
Se è vero che per alcuni reati “bagatellari”, come il furto semplice, le pene detentive negli ultimi 25 anni sono aumentate di ben 12 volte (da 15 giorni a 6 mesi), lo stesso non si può dire delle pene per reati contro la sicurezza dei lavoratori che hanno visto solo aumenti di natura pecuniaria, mai d’inasprimento detentivo.
Un fenomeno da evidenziare
E’ difficile dire se il reato di ”omicidio sul lavoro” vedrà mai la luce nel nostro ordinamento giudiziario e se la trasformazione di questo evento in “reato specifico” possa contribuire a un contrasto più intenso delle cause che ne determinano l’avverarsi, ma, sicuramente, l’impressionante frequenza dei reati contro la sicurezza lavoratori – come si evince dalle denunce presentate quotidianamente dai professionisti delle Ausl e dall’Ispettorato nazionale del lavoro – debbono trovare un ben maggiore risalto mediatico al fine di mettere sotto i riflettori il fenomeno drammatico e ineludibile degli infortuni e delle malattie da lavoro.
Franco Zaniboni
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