Tasse extraprofitti bancari: idea giusta maniera sbagliata – Suscita polemica l’annunciata imposta sui cosiddetti “extraprofitti bancari”, congeniata come un prelievo una tantum sul 40% del margine d’interesse (dato dalla differenza degli interessi attivi, che la banca ottiene sui prestiti concessi e quelli passivi, pagati dalla banca sui depositi della clientela) in eccesso registrato dalle banche nel 2023, se eccede del 10% quello del 2021 e nel 2022, se eccede del 5% sempre quello del 2021.
Contrastare l’aumento dei tassi
Il tutto giustificato dalla crescita dei tassi operata dalla BCE che automaticamente aumenta gli interessi attivi incassati dalle banche (soprattutto se le banche, come è il caso, non adeguano i tassi passivi pagati alla clientela) e dalla volontà di redistribuire gli introiti fiscali così ottenuti in misure quali il previsto taglio del cuneo fiscale a valere sull’IRPEF a favore dei lavoratori e altre misure di agevolazioni per i contraenti dei mutui.
Una misura pubblicitaria
Intenzioni di per sé lodevoli e infatti si prospetta che la misura, di chiaro sapore populista e infatti fortemente voluta da Salvini in calo di consensi, possa portare nuovo sostegno popolare al governo, scavalcando il dissenso sociale comportato dall’abolizione del reddito di cittadinanza, rimettendosi in pari con la comunicazione del M5S e il PD attualmente intenti a focalizzarsi su temi sociali quali appunto il reddito di cittadinanza e il quello specchietto per le allodole che è il salario minimo.
Peccato però che la strada per l’inferno sia spesso lastricata di buone intenzioni.
La norma, infatti, fin dalla sua genesi, presenta molteplici criticità.
Cosa sono gli extraprofitti?
In primis si parte dal presupposto concettuale di “extraprofitti”. Cosa sono degli “extraprofitti”? Dove e come sono definiti? Seguire le mutate condizioni di mercato considerando “normale” solo il margine di interesse del 2021 ha un senso logico? Purtroppo, no.
Dopo una decina di anni di tassi a zero ci si è abituati a considerare tale ambiente di mercato “normale” ma bisogna pur riconoscere che fino a poco tempo fa, era proprio la condizione di tassi di riferimento della banca centrale ad essere considerata (giustamente) del tutto anomala.
Negli anni ’80 i tassi oscillavano tra il 15% e il 20%, negli anni ’90 erano generalmente allineati a quelli attuali, post crisi del 2008 sono diventati nulli o negativi. Qual è la normalità? È possibile per il legislatore stabilire ex post, viste le mutate condizioni di mercato e in maniera meramente adattiva su una memoria di breve termine, adattare le proprie valutazioni?
Interventi sporadici
Inutile indicare poi come il carattere una tantum dell’imposta, volta a finanziare uno sconto sul cuneo fiscale a sua volta una tantum (efficace per appena 6 mesi, ovvero incapace di creare un effetto incentivante per le imprese che assumono e che investono, dal momento che nessuno assume un nuovo lavoratore o compie un investimento sulla base di un incentivo marginale di tale breve durata), abortisce istantaneamente la possibilità di rendere un prelievo sulle banche strutturale e definitivo.
Una misura monca
Mancando il carattere di riforma strutturale del sistema fiscale è possibile supporre che i costi impliciti della misura come: distorsione del mercato, adattamento ex post dei piani industriali bancari, mancati rafforzamenti dei patrimoni netti delle banche con conseguente peggioramento delle condizioni per concessione di nuovi prestiti, scomparsa di ogni incentivo ad aumentare in maniera autonoma i tassi passivi a favore della clientela, mancata distribuzione di dividendi al sistema, mancati introiti fiscali da tassazione su guadagni in conto capitale dati dalla caduta dei titoli quotati etc… possano eccedere i benefici, esclusivamente di breve termine, che alla fine si riducono nell’ennesima “mancetta” pre-elettorale (che la misura miri soprattutto alle elezioni europee del 2024, in stile 80 euro di Renzi, più che alla crescita dell’economia italiana?).
Resta, infine, un tema di principio ineludibile: dovessero le condizioni di mercato mutare e riportarci ad un universo caratterizzato da minori tassi di mercato (come per altro implicato dalle curve dei tassi di quasi tutto il mondo occidentale), cosa si fa? Si rinuncia all’imposizione?
Il principio è corretto
Detto questo, resta però il punto inziale ovvero che è doveroso chiamare gli istituiti di credito a contribuire maggiormente al carico fiscale complessivo e ciò senza remore nel denunciare come effettivamente sospetta l’attività bancaria in sé, caratterizzata intrinsecamente dal rischio di essere fondamentalmente usuraia, basandosi sul mero trasferimento di risorse finanziarie e sulla sottrazione di ricchezza all’economia reale.
Un po’ di storia
Il problema ovviamente non si poneva (o si poneva meno) prima della riforma bancaria del 1993 (a targatura Draghi) che smantellò la precedente riforma del 1936 (a targatura Mussolini), quando essenzialmente le grandi banche nazionali erano di proprietà pubblica, mentre le piccole e le medie banche locali erano per lo più istituti di credito cooperativo o istituti detenuti da fondazioni ed enti locali.
In tal modo, direttamente o indirettamente, tutti i profitti del sistema bancario erano redistribuiti e in una certa misura socializzati a livello collettivo.
Una nuova sintesi è possibile
Forse tornare a quel modello, oggi, sarebbe complicato (sicuramente lo sarebbe per i vincoli europei e il ruolo predominante della BCE in cima al nostro sistema bancario), tuttavia si possono comunque immaginare soluzioni alternative.
Ad esempio, contenere in maniera strutturale i profitti bancari ottenibili sul margine d’interesse, al di là delle contingenze di mercato e quindi in maniera strutturale, è possibile e anzi auspicabile.
Le possibilità esistono
In tal senso, sarebbe forse impossibile immaginare di fissare una tassazione con base imponibile il rapporto tra impieghi bancari (volume dei prestiti concessi più interessi ottenuti) e fonti (volume dei depositi della clientela e interessi passivi) definendo che se tale rapporto restituisce un margine d’interesse superiore ad un X% rispetto ai tassi di riferimento della banca centrale, in particolare rispetto al differenziale tra tassi operati sulle operazioni di rifinanziamento e tassi deposito, allora tale eccesso potrà essere effettivamente tassato (astrattamente anche al 100%)?
Le banche effettivamente non avrebbero di che lamentarsi poiché: la misura seguirebbe sempre gli andamenti, in crescita o in diminuzione, dei tassi della banca centrale, il margine d’interesse garantito per la banca non muterebbe ex post alle mutate condizioni di mercato ma sarebbe conosciuto ex ante, permettendo una pianificazione ottimale dell’attività caratteristica (pianificando i costi di struttura in funzione dei ricavi attesi e anche un ragionevole livello di remunerazione degli azionisti).
Infine, non sarebbe disincentivata l’ipotesi per la banca di aumentare i tassi a favore della clientela (in particolare al fine di attrarre nuovi clienti mantenendo il sistema concorrenziale) poiché un’azione simile muoverebbe verso l’altro il parametro di riferimento sui cui sarebbe misurata la base imponibile.
Insomma, tassare le banche è giusto e doveroso, basta farlo con raziocinio.
Filippo Deidda