Stefano Sparti, ucciso anche dalla perfidia della giustizia bolognese
Aperto un fascicolo dalla Procura, è bene attendere le risultanze del lavoro degli inquirenti, prima di scrivere come se fosse già appurato che Stefano Sparti si è suicidato.
Se il tragico gesto, come a prima vista sembra, fosse volontario, non si tratterebbe comunque di un semplice suicidio.
Tra i mille problemi che Stefano stava vivendo e che potrebbero averlo indotto a perdere ogni speranza nell’esistenza, c’è sicuramente fortissima la frustrazione che in lui insorse, dopo il vergognoso trattamento che ebbe a subire al processo a carico di Gilberto Cavallini.
La testimonianza
In quell’ennesima puntata dell’interminabile processo per la Strage del 2 agosto, infatti, fu chiamato per deporre su una circostanza precisa e che riguardava il suo rapporto col padre, Massimo Sparti, a tutt’oggi unica “prova certa” nel teorema di colpevolezza a carico degli imputati dei Nar.
Una testimonianza, sulla cui scarsa attendibilità non è necessario dilungarsi molto, tanto se ne è scritto negli ultimi trent’anni e più.
Ebbene, sul letto di morte, Stefano chiese al padre se fosse vero, quanto da lui sostenuto per anni nelle aule di giustizia; e il padre gli rispose di no, di aver sempre mentito, per salvaguardare se stesso e la sua famiglia.
Come, a suo tempo, si credette al padre – in tribunale -, oppure non gli si credette – in tanti libri, articoli e interventi di qualsivoglia natura – si sarebbe potuto credere o non credere al figlio.
Perche avrebbe dovuto mentire?
Però, in tribunale o fuori dal tribunale si sarebbe dovuto credere o non credere a questo, cioè, al fatto che il padre non avrebbe reso al figlio questa confessione.
Certo, non credendogli, sarebbe stato necessario spiegarsi perché mai Stefano avrebbe dovuto mentire, visto che nessun vantaggio di alcun tipo avrebbe potuto cogliere da questa testimonianza divenuta, poi, anche deposizione.
Di sicuro, sarebbe stato illogico e scarsamente attendibile pensare che Stefano Sparti volesse aiutare per mal interpretati sentimenti di amicizia Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, dato che, all’epoca, quando era bambino, il suo affetto era indirizzato specialmente verso Cristiano Fioravanti, il fratello di Valerio, diventato “collaboratore di giustizia” e tra i principali accusatori dei condannati.
Cristiano Fioravanti che, per completezza, vive da anni non si sa dove, libero e giocondo.
Testimonianza smontata
Al contrario, a Bologna, il 12 dicembre 2018, la sua testimonianza venne “smontata” proprio a causa di un episodio legato sempre a Cristiano.
Il giorno della strage, infatti, Cristiano venne scarcerato e restò a Roma almeno fino alle ore 20 di quel sabato. Stefano, invece, ricordò in aula di averlo visto arrivare in campagna dalla sua famiglia quello stesso giorno verso l’ora di pranzo.
Attenzione, l’aggancio mnemonico della presenza di Cristiano a Cura di Vetralla, da parte di Stefano, era legato – lo disse espressamente alla Corte d’Assise – alla miriade di notizie che la televisione diffondeva sull’esplosione della bomba.
Ora, è di tutta evidenza che la strage di Bologna fosse stata la notizia egemone delle poche reti esistenti nel 1980 anche il giorno dopo, domenica 3 agosto, e che, quindi, nulla vi fosse di strano se, 38 anni dopo, Stefano, che all’epoca era un bambino di 11 anni, confondesse il sabato con la domenica.
Invece… apriti, cielo!
Questo erroneo ricordo infantile non solo fu ritenuto sufficiente a rendere non credibile la sua testimonianza su quanto appreso dal padre molti anni dopo, quando ormai era un uomo adulto; gli valse addirittura il rinvio a giudizio per falsa testimonianza e un processo da accusato che si sarebbe svolto, più o meno in questo periodo, sempre a Bologna.
Un processo che lo avrebbe visto certamente vittorioso, alla fine, ma che, al contrario, ne annebbiò grandemente l’umore e l’anima, perché lo avrebbe visto trattato come un delinquente, lui che, in fondo, con coraggio, aveva solo testimoniato quello che tutti, per altro, sanno: che il padre fu un bugiardo, nell’ambito di questa triste storia.
Trattato da delinquente nuovamente, Stefano, come quando – anche questo sì è dovuto ascoltare, al processo Cavallini! -, con parole ed espressioni di ironia e di ostentato sospetto, chi lo interrogava e parte di chi lo ascoltava rispondere in aula, espresse meraviglia, per esempio, del fatto che non ricordasse la data di divorzio dei suoi genitori, oppure per quale ragione Cristiano Fioravanti, che a Cura di Vetralla ci sarebbe arrivato in taxi, scelse di usare una macchina pubblica per quel viaggio?!?
Lo si scrisse allora, lo si ripete oggi: quanti ex-mariti ed ex-mogli non sono in grado, a distanza anche di pochi anni, d’indicare la data della separazione?
Quanti figli di coppie divorziate ricordano esattamente quando i genitori hanno messo esattamente la parola fine al matrimonio?
O ancora: perché mai un bambino avrebbe dovuto chiedere a un amico che lo è andato a trovare, vedendolo scendere da un taxi, sempre ammesso che lo abbia visto scendere da un taxi, il perché abbia deciso di arrivare lì con una macchina a tassametro?
E anche ammesso che lì per lì lo facesse, perché mai dovrebbe ricordarsi la risposta 38 anni dopo?
Plausibile
Che si creda o meno alla confessione di Massimo Sparti al figlio Stefano, a renderla plausibile, agli occhi di chi non legge la storia della strage di Bologna con faziosità e strumentalità, è proprio il modo in cui si tentò di inficiarne la credibilità.
Con una cattiveria e una malizia che certamente hanno colmato il cuore di Stefano di una tale amarezza che, se è vero che ha deciso da solo di fare il tragico salto, hanno contribuito enormemente e colposamente almeno a quel folle volo.
Massimiliano Mazzanti