Separazione delle carriere. Una corsa a ostacoli – Il pezzo forte della “riforma della giustizia”, tre paroline semplici semplici che suscitano da decenni speranze, rabbie, chiusure a riccio, polemiche e via discorrendo, è, come ben noto, la separazione delle carriere nel settore penale fra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti, ossia fra la pubblica accusa e chi deve giudicare della sorte degli accusati.
Proposta fondata sulla necessità di creare una distinzione di ruoli che, esistente sulla carta, in realtà finisce per sfumarsi a causa della facilità con cui un magistrato può passare da una funzione all’altra e dalla naturale solidarietà che s’instaura fra coloro che hanno condiviso un medesimo percorso professionale e, last but non least, sovente condividono una medesima collocazione logistica che li porta a frequentarsi con quotidiana abitualità.
Quel “pezzo forte” è stato cavalcato con forza per la prima volta da un magistrato, un ottimo magistrato, Carlo Nordio, peraltro imposto dall’attuale inquilina di Palazzo Chigi; ciò che dovrebbe rappresentare un buon viatico per il compimento di quel progetto.
Dovrebbe…
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il partito dei giudici, ossia una mentalità trasversale che vede il suo nocciolo duro nella sinistra, che conta però importanti sponde anche dall’altra parte della barricata.
Il dott.Davigo, per esempio, uomo tutt’altro che di sinistra, amico della famiglia La Russa il quale, nel suo intimo, considera gli avvocati un inutile ammennicolo nello svolgimento del processo.
L’ultima proposta del ministro della Giustizia
È notizia di oggi che il dott.Nordio ha proposto, come primo passo verso l’agognato traguardo, la competenza di un tribunale in composizione collegiale, invece che quella del Gip, per l’emissione di misure cautelari.
Troppo spesso, è vero, il giudice per le indagini preliminari finisce per trasformarsi in un mero notaio, appiattendosi sulle richieste del pubblico ministero, senza stare troppo a pensarci laddove un organo diverso composto da tre giudicanti assicurerebbe maggiori garanzie di “distacco”.
Verissimo; ma il problema non si risolve in una misura che, per quanto lodevole, è limitata a un intervento settoriale, laddove il problema è strutturale e riguarda l’intera fase del processo e gli approcci, culturali e professionali, per affrontarlo come Dio comanda.
Un contentino?
Gli ottimisti vedranno questa proposta come la riprova di una chiara volontà diretta a stabilire una significativa cesura fra i due ruoli, da realizzarsi progressivamente e senza strappi.
I pessimisti – e io sono fra quelli – ritengono invece, con tutta la buona fede che è doveroso attribuire all’attuale inquilino di via Arenula, che questo passaggio – o forse pochi altri, simili – sarà come la linea del Piave (degli altri), invalicabile e sacra.
Come è sacro, laicamente sacro, il ruolo che la magistratura, in un paese che ha sempre avuto bisogno di una parrocchia (salvo stabilire quali fossero sane e quali no, ma questo è un altro discorso) di santi, veri o presunti e di guaritori di massa (ogni riferimento alla pandemia non è casuale), continua a esercitare nella mentalità generale.
Una soluzione all’italiana
Il rischio è, davvero, che il “partito (trasversale) dei giudici” tatticamente favorisca un pacchetto di giuste misure garantiste e/o di terzietà del giudicante, presentate dalla maggioranza come passaggi verso la separazione delle carriere, per ottenere, strategicamente, l’indebolimento della spinta verso ogni ulteriore sviluppo.
Contando cioè sulla loro efficacia, sulla lentezza delle nostre procedure parlamentari e sui sotterranei dissensi dell’area guelfo-forcaiola all’interno della maggioranza, per ammortizzare tendenze più radicali e decisioniste capaci di favorire un vero cambiamento.
Non c’è più tempo
Che, però, deve avvenire in tempi rapidi e che sarebbe un primo punto di svolta nel paese perché equivarrebbe a un colpo d’ariete contro una, ormai storica, fortezza della sinistra e del pensiero unico liberalprogressista.
Attraverso la quale, grazie all’azione combinata di p.m. e giudici, il regime reale (la “cappa”, secondo l’espressione coniata da Marcello Veneziani) può tenere sotto controllo il tema migratorio, il dissenso politico, l’interpretazione delle c.d. libertà civili, il lavoro delle istituzioni e del parlamento e tanto altro ancora.
Troppa acqua è passata sotto i ponti, però, per indurci all’ottimismo.