Scarpette e balle rosse – Secondo i dati del “Female homicide, rate 2012-2021”, elaborati da un’agenzia controllata dall’osservatorio “Omicidi e droga” dell’Onu, l’Italia è uno dei paesi in cui le donne vengono assassinate di meno in Europa e nel mondo.
Apriti, cielo!
Ma come si fa a dire una cosa del genere, se “viene uccisa una donna ogni tre giorni!” Ecco, appunto: se si strilla, dalla stampa e dalle televisioni, che ogni 72 ore una donna italiana viene assassinata brutalmente, la sensazione che si dà all’opinione pubblica è quella di un paese dove il solo indossare una gonna trasforma la persona in un bersaglio.
Di contro, quanto meno per lo statistico, significa che, in un paese di circa 60 milioni di abitanti, dei circa trecento omicidi che, purtroppo, si registrano in un anno – per esempio, nel 2022 -, poco più di un centinaio vengono consumati ai danni delle donne, mentre poco meno di 200 gli uomini.
Ora, quindi, sempre uno statistico serio non si fermerebbe al “sintomo”, l’assassinio, ma cercherebbe di risalire, per quanto possibile, alle cause di ciascun delitto, prima di formulare tesi azzardate o di farsi suggestionare da propagande d’ordine politico.
Qualche esempio
Per esempio, nella città di Bologna, le ultime vittime di “femminicidio” sono state tre donne, due sarebbero state uccise da un noto medico, la terza da un ex fidanzato. Ebbene, nel primo caso, l’esser donna della moglie e della suocera del dottore – prendendo per buone le ipotesi accusatorie, dato che i processi di cui parliamo sono ancora in corso – è un dato assolutamente secondario, dal momento che l’obbiettivo del marito assassino sarebbe stato il patrimonio delle sue vittime.
Per tanto, anche se fosse stato “rieducato al rispetto della donna e delle differenze di genere”, questo soggetto non sarebbe rimasto preda dell’ossessione del denaro, distorto nel suo agire e nel suo ragionare da quell’avidità che – di fatto – viene istigata dai modelli sociali e culturali in cui tutti vivono?
La terza, invece, in apparenza è un caso classico di violenza nata da distorsioni sentimentali, se non fosse che – sempre da quel che si è letto e, quindi, col beneficio del dubbio – l’assassino, oltre che ad avere tratti psicotici nella personalità, sarebbe stato uso a consumare frequentemente droghe di vario genere, in particolare di quelle che, come è noto, stimolano l’aggressività e spengono i freni inibitori.
In quel caso, allora, è prevalente la “distorsione sentimentale”, oppure la perdita di sé stesso a causa degli stupefacenti?
I freni inibitori
Chi, nella vita, in un momento di sconforto o di rabbia, non ha detto o pensato della persona che lo ha gettato nella momentanea prostrazione: “ora l’ammazzo!”.
Poi, però, la rabbia passa, i “freni” della coscienza e della ragione iniziano a tirare e, in tutti gli altri casi tranne uno su un milione, grazie a Dio, non succede niente.
Di contro, tra tutte le persone che, nella loro singolare normalità hanno il consumo abituale di droghe qualsiasi esse siano, il tasso di violenza e di aggressività – non più latente, ma espressa – si contabilizza in modo tutt’altro che millesimale.
Eppure, sono gli stessi attori sociali che vorrebbero più rigidi insegnamenti in materia di “gender” quelli che sono altrettanto, anzi, ancor più indulgenti in materia di libero accesso agli stupefacenti.
E, quindi, come la mettiamo?
Poi, si potrebbe andare avanti per tante pagine, con esempi che dimostrano l’essere donna della vittima è il “sintomo”, ma non la causa della “malattia” che attanaglia l’assassino.
In Italia, poi, circa un terzo delle violenze contro le donne è compiuto da immigrati. In quel caso, qualche problema culturale di fondo nel rapporto tra i sessi esiste, per ragioni storiche e religiose.
Eppure, nessuno si sognerebbe – se non in partiti definiti di estrema destra, oppure accusati di essere xenofobi o razzisti – di pretendere che alle bambine o ai bambini di quelle etnie che, nelle loro case, vengono intrisi di convinzioni, pregiudizi e modelli non adatti alla nostra società, fosse insegnato il diritto di ribellarsi ai genitori.
Oppure, che quelle regole, quei pregiudizi e quei modelli sono arcaici, obsoleti, quando non stupidi e pericolosi.
Tanto è vero che, ormai, è per tutti normale incontrare per la strada donne col velo, imprigionate in chili di stoffa anche a Ferragosto e pure al mare, le quali camminano rispettosamente svariati passi dietro al marito e col capo chino.
Qualcuno potrebbe replicare: è una loro libera scelta.
E avrebbe ragione, per certi versi.
La scuola assente nell’integrazione
Ma compirebbero quella scelta, per esempio, le ragazze mussulmane che vivono in Italia se, dalle elementari alle medie, obbligate a frequentare le scuole, ascoltassero sminuire quelle pratiche e venissero informate adeguatamente che, qualora non volessero adeguarvisi, non ostante il parere del padre o della madre, la legge le tutelerebbe?
La verità, nota a tutti, è che questo lavoro la scuola non lo fa – e non vuole farlo -, rispettando una mal interpretata libertà religiosa, salvo poi dolersi se una di quelle ragazze viene “costretta al matrimonio” o resta vittima di violenza, anche se non necessariamente uccisa, quotidianamente.
Far finta di ragionare il “femminicidio” – quando non inventandosi proprio la categoria -, per portare un attacco risolutore al modello tradizionale di famiglia occidentale, in realtà, significa non solo perdere di vista le cause reali dei molti omicidi che si registrano di questi tempi, ma anche lasciare campo libero a quegli altri modelli che, prosperando in un concetto che di occidentale non ha proprio un bel nulla – né in senso positivo né in senso negativo -, essendo radicalmente “altri”, non potranno che far peggiorare le cose, invece di migliorarle.
Massimiliano Mazzanti
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