Reportage dalla Terra Santa pt.3
Una volta atterrati a Tel Aviv, fuori dall’aeroporto, un caldo dantesco ed estremamente secco ci investe. Per raggiungere la corriera che ci porterà a Gerusalemme percorriamo un passaggio coperto realizzato in pietra chiara, la pietra di Gerusalemme, mentre lungo i lati del passaggio una serie di varchi si aprono su palmizi e cespugli ben curati.
Tutta l’atmosfera è pervasa da una luce bianca accecante: siamo in Medio Oriente.
Nel parcheggio troviamo ad accoglierci la nostra guida, che indicherò come J. di Nazareth, un archeologo che ha studiato a Roma e parla perfettamente l’italiano. Appena J. inizia a parlare ti accorgi che è sarcasmo allo stato puro, la battuta è rapida, sempre azzeccata, mai offensiva, una capacità di spirito che sbuca da dietro l’angolo di ogni affermazione. Dalla parola più semplice e banale è in grado di fare uscire una risata, come un mago pesca un coniglio dal cilindro.
Saliti e sistemati sopra la corriera J. ci accoglie con «Benvenuti in Terra Santa!», precisando l’utilizzo della maiuscola nelle iniziali di entrambi i termini e sottolineando che questa terra non è prima di tutto né Palestina né tantomeno Israele.
Route 1
Imbocchiamo la route 1, l’arteria principale d’Israele che collega Tel Aviv a Gerusalemme, e che prosegue fino a est, verso la valle del Giordano nel West Bank, nota anche come Cisgiordania.
Lungo la strada vediamo le prime coltivazioni di piante da frutto, intere vallate e distese di campi risaltano agli occhi per il verde rigogliosissimo che le caratterizza, contrariamente da quanto uno potrebbe aspettarsi date le temperature.
Tra le migliaia di alberi J. ci indica gli ulivi e i pompelmi di Jaffa, quest’ultimo un frutto molto noto in queste terre, non solo per la sua bontà, ma anche per essere stato oggetto di una campagna di vero sradicamento sotto Ariel Sharon per consentire la costruzione di case di coloni israeliani.
Un atto che, secondo quanto ci spiega J., rientra all’interno del progetto di Israele di far giungere in Terra Santa tutti gli ebrei del mondo affinché possa finalmente giungere il loro Messia. Inoltre, come aggiunge sempre J. il sogno degli ebrei è vivere a Gerusalemme, e questo spiega ulteriormente sia la politica finalizzata a fare arrivare tutti gli ebrei del mondo qui, sia l’espansione edilizia che sta segnando l’intera periferia di Gerusalemme.
Il monastero ortodosso
Percorrendo sempre la route 1 e costeggiando nuovi insediamenti israeliani, notiamo edifici dall’architettura estremamente moderna, che a tratti richiamano un razionalismo minimalista, ed esprimono un’immensa contraddizione: da un lato, villette basse, dall’altro, grattacieli altissimi, tutti realizzati con la pietra chiarissima di questa terra che riflette una luce allucinante. Ed è osservando questi complessi di case che J. ci racconta come in una zona colonizzata avevano scoperto un monastero ortodosso del III° sec. d.C. e lo avevano distrutto per fare posto alle abitazioni destinate ai coloni ebrei.
Passano pochi minuti e con tono umoresco e malinconicamente rassegnato, ma sereno, J. ci racconta che gli israeliani vorrebbero mandare via gli arabi e i cristiani da questi territori, e che negli ultimi tempi, dall’inizio del conflitto, il clima è ancora più teso e che probabilmente manderà via i suoi figli, poiché teme per il loro futuro e perché nell’ambiente universitario gli arabi e i cristiani vengono spesso discriminati.
Bisogna sottolineare che lui è un cittadino israeliano arabo di confessione cristiana, un vero amalgama, ed il è motivo che lo spinge spesso a sottolineare la condizione in cui vivono i cristiani in Terra Santa.
Il popolo di Palestina
Ci spiega un tratto peculiare e importantissimo da tenere in considerazione riguardo la composizione della popolazione che nasce e vive in Palestina, intesa come regione geografica: Israeliano non significa per forza ebreo e palestinese non è per forza musulmano.
Esistono tanti arabi che come lui hanno la cittadinanza israeliana ma sono cristiani, una comunità che un tempo era molto più numerosa di quanto non lo sia oggi.
E così esistono tanti palestinesi che non sono necessariamente musulmani, ma possono essere anche cristiani, e arabi musulmani che, esponenzialmente cresciuti, possono essere cittadini israeliani.
Mentre J. continua a raccontarci episodi della vicenda biblica legati a quei luoghi che percorriamo, oltrepassiamo la città di Lod, dove si ritiene essere nato San Giorgio e le cui ossa sono custodite all’interno della basilica dedicata al martire, una figura importante per gli ortodossi – ad oggi la basilica appartiene al patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme.
Il Muro
Mentre percorriamo l’autostrada, dopo una serie di primi e sinuosi sali e scendi di colline di roccia e pietre, aride e brulle, asciutte e roventi, con tanti piccoli ciuffetti verdi sparsi qua e là, cominciano ad apparire alla nostra sinistra i primi tratti del muro in cemento armato, le torrette che si alternano e il filo spinato a incorniciare: di qua Israele, al di là del muro Palestina.
E mentre il muro corre parallelo a noi, seguendo l’andamento del terreno, J. sentenzia così: «per uccidere un uomo ci sono mille modi e l’ultimo modo è sparargli».
Usciamo dalla route 1 per immetterci nella route 443, conosciuta come Ma’ale Beit Horon, che significa l’Ascensione di Bethoron, una strada che ricalca l’antica via commerciale da est a ovest che collegava la Via Maris e la Via dei Patriarchi. Dopo ancora una serie di continui sali e scendi arriviamo ad Atarot, una zona industriale fuori Gerusalemme, e qui abbiamo modo di confrontarci a distanza ravvicinata con il muro, quasi lo si potrebbe toccare: barriera di un grigio pallido sbiadito dal sole che gli ebrei chiamano il muro della difesa.
Mentre ascolto J. e guardo fuori del finestrino, penso di non possedere gli strumenti per negare o almeno contraddire quanto afferma la nostra guida. È indubbio che la sua opinione è inevitabilmente il frutto dell’imparzialità, ciononostante, pur limitandomi a riferire quanto posso ascoltare, confesso che dentro di me lo schieramento per una parte si consolida.
Ebrei e Arabi
Ad un tratto ci colpisce la descrizione socio-antropologica che J. fornisce degli ebrei e degli arabi attuando un vero paragone. Quello che sorprende è la convinzione del come viene descritto l’ebreo, i tratti che gli vengono attribuiti: un individuo dotato di mente fresca, una persona con le idee chiare di che cosa vuole fare nel futuro, poiché l’ebreo ha un vantaggio, ovvero quello di guardare avanti all’interno di una prospettiva a lungo termine, l’ebreo lavora al fine di attuare un progetto proiettato nel futuro.
Diversamente dall’arabo, al quale interessa lavorare oggi e mangiare domani, poiché nella condizione attuale di grande incertezza, inficiato anche dal fatto di non detenere le leve del comando, non può nemmeno elaborare una proiezione lanciata nel futuro. E questa differenza sostanziale la si può notare anche sul piano urbanistico.
Gerusalemme
Ormai siamo dentro Gerusalemme, percorriamo una nuova strada, la route 60 e l’andamento comincia a non essere più rettilineo, le curve sinuose si susseguono, salire e scendere è oramai un elemento consolidato di questa terra, così come abbiamo appurato che tutte le strade che conducono a Gerusalemme sono in salita. Tra poco saremo ai Getsemani, il piccolo oliveto appena fuori la Città Vecchia, sul Monte degli Ulivi, dove Gesù si sarebbe ritirato dopo l’Ultima Cena prima di essere tradito.
Ecco, là in basso la chiesa di tutte le Nazioni, e di fronte la Porta d’Oro di Gerusalemme, l’unica porta murata della Città Vecchia, nota anche She’ar Harahamim, la porta della Misericordia. Una misericordia che i figli di Gerusalemme forse non devono conoscere, poiché come racconta la nostra guida, un bambino di Gerusalemme è come un politico e deve ragionare come tale: deve sapere se girare a destra o a sinistra quando uscirà di casa, sapere quando manifestare o quando sparire e nascondersi, sapere se domani ci sarà un attentato oppure no, perché il pericolo a Gerusalemme è sempre imminente.
Riccardo Giovannetti
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