Ramelli e Pedenovi, il tributo di sangue di Milano – Tutti i fascisti come Ramelli, con la riga rossa in mezzo ai capelli.
Questa è una delle tante frasi che, ancora oggi, a distanza di più di 50 anni si leggono sui muri. Parole violente che ricordano, infatti, il periodo buio degli anni di piombo.
Un periodo che seminò vittime sia rosse che nere ma tutte con un aspetto in comune: la giovane età.
Proprio come quella di Sergio Ramelli, diventato il simbolo delle vittime missine.
Un ragazzo morto con la chiave inglese tra i capelli.
Ramelli capisce, si protegge la testa con le mani. Ha il viso scoperto e posso colpirlo al viso. Ma temo di sfregiarlo, di spezzargli i denti. Gli tiro giù le mani e lo colpisco al capo con la chiave inglese. Lui non è stordito, si mette a correre. Si trova il motorino fra i piedi e inciampa. Io cado con lui. Lo colpisco un’altra volta. Non so dove: al corpo, alle gambe. Non so. Una signora urla: “Basta, lasciatelo stare! Così lo ammazzate!” Scappo, e dovevo essere l’ultimo a scappare.
Questo è quanto emerse dalla testimonianza resa da Marco Costa durante il processo.
Uno scenario di violenza che degenerò in una vera e propria condotta animalesca.
Hanno ucciso un ragazzino
È così che perse la vita un ragazzo la cui pecca mortale fu quella di appartenere alla parte sbagliata.
Ma andiamo per ordine.
Siamo nel 1975 all’ l’ITIS Ettore Molinari di Milano, presso il quale Ramelli studiava chimica industriale, un luogo che era ormai diventato teatro di accesi scontri politici tra studenti estremisti di destra e di sinistra, una situazione che era ormai diventata comune a molte scuole superiori e università italiane.
Ramelli, fiduciario del Fronte della Gioventù, le cui posizioni politiche erano ben note nell’istituto, in quanto professate in pubblico, fu vittima, in un breve lasso di tempo, di due aggressioni che lo spinsero, nel febbraio 1975, a lasciare il “Molinari” per proseguire l’anno scolastico in un istituto privato.
Il tema incriminato
Una passione politica accompagnata da fedeltà e audacia come si può riscontrare da una testimonianza resa dalla madre del ragazzo, il quale, in un tema scolastico, aveva condannato le Brigate Rosse, con tanto di nota di biasimo verso il mondo politico per il mancato cordoglio istituzionale per la morte di due militanti del MSI, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, uccisi il 17 giugno 1974 durante l’assalto alla sede del MSI di Padova.
Un tema che portò Ramelli a subire una sorta di processo politico scolastico, una volta che il tema fu affisso in una bacheca scolastica e usato come capo d’accusa contro il ragazzo.
Aggredito sotto casa
Arriviamo al 13 marzo 1975, quando Ramelli, una volta parcheggiato il suo motorino poco distante, in via Palladini, si stava recando verso casa.
È lì, all’altezza del civico 15 di via Palladini, che fu assalito da un gruppo di extraparlamentari comunisti di Avanguardia operaia armati di chiavi inglesi, e con queste colpito più volte al capo. Dopo la barbara aggressione, il giovane perse i sensi e fu lasciato esangue al suolo.
Aspettammo dieci minuti, e mi parve un’esistenza. Guardavo una vetrina, ma non dicevo nulla. Ricordo il ragazzo che arriva e parcheggia il motorino. Marco mi dice: “Eccolo”, oppure mi dà solo una gomitata. Ricordo le grida. Ricordo, davanti a me, un uomo sbilanciato. Colpisco una volta, forse due. Ricordo una donna, a un balcone, che grida: “Basta!”. Dura tutto pochissimo… Avevo la chiave inglese in mano e la nascosi sotto il cappotto.
Fu così breve che ebbi la sensazione di non aver portato a termine il mio compito. Non mi resi affatto conto di ciò che era accaduto.
Fu questa la testimonianza resa da Giuseppe Ferrari Bravo durante il processo.
Un’ambulanza portò Ramelli all’Ospedale Maggiore, precisamente all’ex padiglione Beretta specializzato in neurochirurgia, dove il sedicenne fu sottoposto a un intervento chirurgico della durata di circa cinque ore, nel tentativo di ridurre i danni causati dai colpi inferti alla calotta cranica.
Purtroppo, fu tutto vano.
Infatti, il decorso post-operatorio fu di periodi di coma alternati ad altri di lucidità.
Il giorno prima che Ramelli morisse, la famiglia subì l’ennesimo sfregio.
Un gruppetto staccatosi da un corteo della sinistra si recò presso la casa della famiglia Ramelli, dove lasciò scritte sui muri e affisse un manifesto nel quale si minacciava il fratello Luigi Ramelli di morte se non fosse sparito entro quarantotto ore.
Dopo quarantasette giorni dall’aggressione, Ramelli esalò l’ultimo respiro, morendo il 29 aprile 1975.
Vietati i funerali
Il giovane non trovò pace neanche ai suoi funerali, visto che il feretro giunse in chiesa quasi di soppiatto, in quanto le autorità locali avevano vietato il corteo funebre e gli estremisti di sinistra avevano minacciato di usare chiavi inglesi contro eventuali partecipanti.
Dopo le esequie del giovane Ramelli, l’odio rosso non si arrestò, anzi sembrava ancora più acceso.
Infatti, dalle finestre delle aule della facoltà di Medicina che davano su piazzale Gorini, alcuni giovani con i volti coperti da fazzoletti rossi avevano fotografato i partecipanti ai funerali di Ramelli e molti di questi scatti furono ritrovati nel cosiddetto covo di viale Bligny.
Il processo inizia con 12 anni di ritardo
Solo il 16 marzo 1987 prese avvio il processo per gli accusati del crimine: Claudio Colosio, Franco Castelli, Giuseppe Ferrari Bravo, Luigi Montinari, Walter Cavallari, Claudio Scazza, medici praticanti in varie discipline e studenti all’epoca dei fatti.
Il gruppo era una parte del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia nella facoltà milanese di medicina. Alcuni degli imputati vennero processati anche per altri tentati omicidi e violenze.
Secondo la ricostruzione operata dagli inquirenti, i due aggressori sarebbero stati Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo.
Infatti, all’epoca, i due appartenevano ad un ristretto gruppo noto come gli idraulici proprio per via degli strumenti usati per le aggressioni.
Di Domenico sarebbe stato il mandante e il pianificatore dell’azione, mentre Colombelli avrebbe avuto il ruolo di sorvegliante della vittima.
Castelli, Colosio e Montinari, invece, avrebbero dovuto sorvegliare la zona e dare, eventualmente, l’allarme in caso di pericolo.
Gli altri avrebbero avuto ruoli variabili nella preparazione dell’azione e in altre violenze.
Le accuse comprendevano omicidio volontario, tentato omicidio, sequestro di persona, associazione sovversiva, danneggiamento. Belpiede, Ferrari Bravo e Di Domenico si dichiararono estranei ai fatti, mentre Brunella Colombelli ammise di aver fatto parte della struttura del movimento, affermando però di non essere stata a conoscenza né dei piani dell’aggressione né della sua organizzazione.
Il pentimento posticcio
Castelli, Montinari, Colosio, Scazza e Cavallari, invece, confessarono l’operato scrivendo alla madre di Ramelli, chiedendole perdono e offrendo e depositando presso un notaio un risarcimento di 200 milioni di lire.
Soldi che la madre della vittima rifiutò.
Una spedizione punitiva finita male?
Al processo gli aggressori dichiararono che la situazione era sfuggita di mano, in quanto le loro intenzioni erano quelle di causare a Ramelli, scelto a caso tra i militanti della zona, ferite lievi con qualche giorno di prognosi.
Una versione che contrastava coi colpi inferti al ragazzo ripetutamente sul cranio.
Gli imputati affermarono inoltre che a richiedere espressamente l’azione era stato Roberto Grassi, responsabile del servizio d’ordine della colonna di Avanguardia Operaia legata a Città Studi e morto suicida nel 1981.
Se questa è la giustizia italiana…
Il 16 maggio 1987 la II Corte d’assise di Milano assolse Di Domenico per insufficienza di prove e dichiarò Cavallari estraneo ai fatti.
Tutti gli altri imputati furono ritenuti colpevoli di omicidio preterintenzionale in quanto venne di fatto riconosciuta l’accettazione del rischio di uccidere insito nell’atto di violenza, ma non la volontarietà dell’atto.
Marco Costa ricevette 15 anni e 6 mesi di reclusione; Giuseppe Ferrari Bravo 15, entrambi per aver materialmente colpito Ramelli. Claudio Colosio ricevette 15 anni; Antonio Belpiede 13 anni; Brunella Colombelli 12 anni per aver indicato al commando di Avanguardia Operaia il luogo e l’ora in cui colpire; Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari 11 anni.
La condanna non fu soddisfacente per il Pubblico Ministero, che contestò il rigetto del ben più grave omicidio volontario in favore dell’omicidio preterintenzionale e depositò ricorso.
Il 2 marzo 1989 Costa passò da 15 anni a 11 e 4 mesi; Ferrari Bravo da 15 a 10 e 10 mesi; 7 anni e 9 mesi a Colosio invece che 15; 7 anni invece di 13 a Belpiede; 6 anni e 3 mesi a Castelli, Colombelli, Montinari e Scazza in luogo degli 11-12 iniziali.
Questo perché la II sezione della Corte d’assise d’appello presieduta da Renato Cavazzoni accolse le richieste del pubblico ministero ma, sebbene l’accusa fosse mutata in omicidio volontario, riconobbe l’attenuante del concorso anomalo, che ridusse così le pene.
Il 23 gennaio 1990 la I sezione della Corte di cassazione presieduta da Corrado Carnevale rigettò la richiesta e i ricorsi della difesa per ottenere il riconoscimento della premeditazione e il conseguente aggravio delle pene, confermando così le sentenze di secondo grado.
Costa e Ferrari Bravo tornarono in carcere, anche per via delle condanne aggiuntive, mentre gli altri imputati poterono usufruire di un condono e di pene alternative per via della loro condizione sociale e della loro ridotta pericolosità.
La carriera stellata degli assassini
Ma non è finita qui, alcuni degli allora studenti di medicina condannati hanno successivamente intrapresero una gran carriera ospedaliera fino a ricoprirne prestigiosi incarichi.
Tutto questo mentre l’odio rosso continuava ad avanzare imperterrito in quegli anni bui.
Infatti, il 29 aprile del 1976, esattamente un anno dopo la morte di Ramelli, giorno in cui, Enrico Pedenovi, 50 anni, avvocato e politico iscritto all’MSI, si sarebbe dovuto recare alla commemorazione del giovane, si ritrovò vittima dell’odio rosso.
Pedenovi freddato lungo la strada
A bordo della propria automobile l’avvocato missino aveva percorso un centinaio di metri verso una piazza.
Fermatosi a un distributore di carburante, era atteso da un commando di tre uomini, a bordo di una SIMCA.
Questi gli si avvicinarono aprendo il fuoco contro la vettura, uccidendolo, per poi fuggire a bordo dell’auto, che risultò rubata.
Nonostante non fosse un personaggio di primo piano, il suo nome era comparso in una lista di militanti neofascistipubblicata su Lotta Continua, organo di stampa dell’omonimo movimento politico, per via del suo ruolo nella struttura milanese.
Infatti, il terrorista Sergio Segio considerò l’assassinio dell’avvocato missino come una rappresaglia per l’aggressione del giovane di sinistra Gaetano Amoroso da parte di un gruppo di militanti di destra che ne aveva provocato la morte.
Ma dagli atti del processo emerse anche che Pedenovi era stato scelto come vittima per via della facilità con cui si sarebbe potuto attaccare.
Ennesimo caduto senza giustizia
Dopo un primo esame di alcuni dei nomi pubblicati sulla lista di Lotta Continua, si scoprì che probabilmente il commando aveva scelto Pedenovi per via delle sue azioni metodiche e per la sua sostanziale assenza di sospetti e difese.
L’omicidio fu rivendicato dai Comitati Comunisti Rivoluzionari, un’organizzazione paramilitare riconducibile a Prima Linea.
Gli esecutori materiali furono Bruno La Ronga e Giovanni Stefan, condannati all’ergastolo nel 1984 dalla Corte d’assise del capoluogo lombardo.
27 anni, invece, per il terzo componente, Enrico Galmozzi. Questo grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche concesse, in quanto smesso l’atteggiamento irriducibile e accettato il dibattimento processuale.
28 anni per un altro membro dell’organizzazione Piero del Giudice, come concorrente morale nell’omicidio.
Al momento della sentenza, Stefan risultava latitante.
In seguito, le sentenze furono in parte modificate dalla Corte di cassazione: ridusse a 29 anni l’ergastolo di La Ronga, confermò i 27 anni di Galmozzi e l’ergastolo a Stefan, ed assolse Del Giudice mentre Giovanni Stefan era stato arrestato in Francia e rilasciato.
Il 28 giugno 2005 la Corte d’appello gli concesse le attenuanti generiche, riducendo il massimo della pena e dichiarando prescritto il reato.
Dinamiche che portano a riflettere sulla la frase detta il 29 aprile del 2017 dal consigliere regionale di Fratelli d’Italia ed ex vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, nel corso della commemorazione di Pedenovi e di Sergio Ramelli riguardo ai responsabili dei due omicidi affermando che il problema è che sono tutti fuori, quelli che hanno ucciso lui e Ramelli.
Nemes Sicari
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