Leggiamo un articolo sull’aumento dei problemi mestruali delle “persone con l’utero “. Una breve ricerca conferma che l’espressione “persone con l’utero” è sempre più utilizzata in certi ambienti politici, accademici, perfino istituzionali.
Le persone con l’utero, tenetevi forte, sono le persone che si identificano con il genere femminile loro attribuito alla nascita.
A vista, da antiquati ginecologi e trogloditi genitori ( 1 e 2, ma anche “ gestanti e “non gestanti”, come recita il codice civile spagnolo). Ma non solo loro: sono persone con l’utero anche tutt* coloro che, pur non identificandosi come donne- ci scusiamo per l’uso di questa parola antica, retaggio del buio passato- ne hanno tuttavia i caratteri fisiologici.
Bizzarro
Nella speranza che la medicina risolva le anomalie del ciclo , dobbiamo dire la nostra sulle derive psicosociali in cui si diffonde l’ orrendo sintagma “ persone con l’utero” inventato dai negromanti della comunicazione al posto della semplice, corretta, semplicissima, bellissima parola “donna”. Il primo elemento della perniciosa sottocultura queer ( storto, bizzarro) – la quinta lettera dell’acronimo LGBTQ, ora seguito anche dalla I di intersessuale (?) e dal segno + che tutto vuol comprendere- è l’odio per la normalità. Io sono ciò che voglio, qui e adesso. Nessuno può eccepire; la società deve prenderne atto e rimuovere gli ostacoli – biologici, naturali, psicologici, sociali- che ostacolano la mia volontà sovrana.
Dunque donna e uomo, maschile e femminile vanno distrutti, anzi “decostruiti” . Il risultato sarà un androgino spurio, un ibrido tendente verso l’unico, l’identico, il transumano, benché nell’attuale fase di passaggio domini l’utopia diversitaria di mille identità agonistiche. L’influenza delle culture omosessualiste maschili esprime un odio implacabile per la donna in quanto fertile, portatrice della vita. Il corrispettivo è l’avversione del femminismo estremo per l’universo maschile, simbolo di forza, protezione, trasmissione di principi. Tutte queste tendenze hanno in comune l’odio di sé, della natura e della realtà, ovvero la radice gnostica. l’idea di una creazione imperfetta che alcuni illuminati hanno il diritto-dovere di modificare. Rappresentano la declinazione contemporanea del mito dell’uomo nuovo (pardon, della persona nuova) ereditato dalle ideologie del Novecento , il cui sbocco naturale è la (in)cultura della cancellazione.
I novelli dottor Frankenstein
Nelle aule universitarie e nei dibattiti sull’identità di genere risuona l’idea che gli esseri umani siano infinitamente plastici, capaci di rimodellarsi a piacimento. È come se l’intera società fosse diventata un immenso esperimento di ingegneria sociale, in cui ogni individuo è il dottor Frankenstein di se stesso. “Reinventati”, “sii la versione migliore di te stesso”, è il vangelo predicato dai pulpiti di Google, Facebook, Wikipedia. Hannah Arendt fu la prima a mettere in guardia dal totalitarismo delle ideologie tese a creare l’uomo nuovo.
Il mito dell’uomo nuovo nasce da una profonda insoddisfazione per la condizione naturale dell’umanità in carne, ossa e anima. È alimentato dalla convinzione che, attraverso l’ingegneria sociale, l’istruzione, la scienza e la rivoluzione politica, possiamo superare i limiti che finora hanno definito la nostra esistenza. Si tratta del rifiuto della natura umana fissa, immutabile. Questa visione affonda le radici nel pensiero illuminista e nella fede nel progresso, ma assume una nuova dimensione con la secolarizzazione della società, che promette di forgiare un nuovo tipo umano, libero dai difetti del passato, assolutamente autonomo, libero anche dalle costrizioni fisiologiche. Lo vediamo nel transumanesimo che ambisce a superare i limiti biologici attraverso la tecnologia, e nei movimenti che vogliono ridefinire aspetti fondamentali dell’identità umana.
L’ansia del nuovo
L’attrattiva è la falsa promessa di una soluzione a tutti i problemi, a partire da quelli individuali, intimi, identitari. Io posso percepirmi come donna e rivendicare l’appartenenza al genere femminile. Nei casi più folli, già realtà nell’infernale laboratorio antropologico che è il Canada, si pretende l’impianto chirurgico di un utero , meglio se a spese dello Stato, per completare la transizione e diventare così una “persona con utero”. Il principio è semplice: se possiamo cambiare la natura biologica e psicologica, la conseguenza è l’eliminazione dei conflitti, dell’ingiustizia, della sofferenza. Una promessa seducente, ma totalmente folle. Il mito dell’uomo nuovo è accompagnato dal rifiuto della tradizione (“trasmissione”) e dei saperi accumulati dalle generazioni. L’ ansia compulsiva del nuovo, dell’eccentrico (queer) destabilizza le strutture sociali che danno significato e stabilità alla vita umana, destituendo di valore la realtà biologica, derubricata a costruzione sociale da abbattere.
Il sintagma “persona con utero”, come tutte le altre diavolerie della neolingua, va quindi preso sul serio, rifiutato e gettato nella spazzatura. Proviene da serissimi studi delle università americane la cui ambizione è modificare il nostro modo di essere, pensare, giudicare la realtà attraverso la riconfigurazione del lessico. Una gigantesca manipolazione le cui premesse affondano nel linguaggio politicamente corretto, divenuto follemente corretto (Luca Ricolfi).
La teoria critica della razza
Decisiva è stata, negli anni Novanta, la nascita del “movimento identitario”, dopo che la femminista nera Kimberle Crenshaw sviluppò la “teoria critica della razza”, considerata un costrutto sociale per giustificare lo sfruttamento dei neri da parte dei bianchi. Crenshaw sviluppò il concetto di “io posizionale” secondo il quale ciascuno presenta un’identità determinata dalla sua posizione all’interno della dicotomia dominazione/oppressione, talché non esiste un io individuale a partire da un sostrato genetico ma soltanto un “io posizionale” derivato dall’appartenenza a un determinato gruppo identitario.
A partire dalla posizionalità introdusse un concetto nuovo, l’intersezionalità, per riferirsi al fatto che una stessa persona è situata in un punto dello spettro sociale in cui confluiscono più oppressioni, ad esempio per essere -come lei- donna, nera e lesbica. Il risultato divenne una sorta di chiamata alle armi per l’unità antagonista di tutte le diversità e identità. Contemporaneamente, una filosofa radicale, femminista e omosessuale, Judit Butler, dava impulso al movimento LGBTQI+ elaborando la teoria queer in Questioni di genere, il femminismo e la sovversione dell’identità. Genere e sesso- biologico- sono costruzioni sociali; pertanto il sesso di una persona è quello auto percepito. Ecco giustificata la catena apparentemente logica in base alla quale ha senso l’espressione “persona con utero”, che riguarda il sesso biologico ma non il genere.
Un ginepraio
Il concetto di percezione individuale implica la cancellazione del dimorfismo sessuale e, al limite, la negazione delle battaglie femministe. Una formidabile aporia denunciata da un settore del femminismo bollato come TERF ( femministe radicali trans escludenti). La Butler ha introdotto altresì la categoria di “performatività” per riferirsi al fatto che sono le “narrazioni” e le attitudini introiettate a costruire l’esistenza di generi e sessi differenziati dentro il falso schema binario. Perciò è necessario rompere l’illusione dell’esistenza reale di genere e sesso mediante la modifica del linguaggio, dei modelli concettuali tradizionali e della normativa legale.
Come è evidente, la teoria queer che produce espressioni come “persona con utero” contiene una contraddizione insolubile, poiché se non esistono caratteri fisici né schemi concettuali che differenzino i (due!) sessi, si finisce per affermare l’inesistenza di uomini e donne. Per conseguenza, dovrebbe essere anche impossibile auto percepirsi dell’uno o dell’altro sesso ( e degli infiniti generi della catena LGBT) . Un ginepraio inestricabile da cui si esce solo attraverso l’ideologia. La debolezza logica è tuttavia troppo grande: occorre l’imposizione. Di qui la costruzione artificiale della neolingua.
Cambiare la realtà
Ciò che la bocca si abitua a dire, il cuore si abitua a pensare (C. Baudelaire) . Si torna all’inizio, ossia al tentativo di cambiare la realtà manomettendo i termini che la descrivono. Le parole cambiano la mente e la modalità neolinguistica forgiata nelle officine di Vulcano delle università americane è il linguaggio “abilista”, una delle cui formule è la tecnica “person first”, l’obbligo di anteporre a una definizione il termine “persona”. La giustificazione ufficiale è l’eliminazione del linguaggio “dannoso” , la volontà di non offendere alcuno, bandire dalle parole il razzismo, la violenza, il pregiudizio, ma si tratta di un’ azione di ingegneria linguistica volta a cambiare il volto dell’ intera società.
L’operazione ammette esplicitamente di voler “educare”, ossia imporre un modo di pensare e parlare. Una società che distrugge il linguaggio porta a compimento il relativismo etico-culturale fino a esiti impensabili solo pochi anni fa. Così scriveva il sociologo Pitirim A. Sorokin: “il relativismo una volta accettato giunge fino a relativizzare ogni verità e valore trasformandoli in “atomi”, di conseguenza col tempo egli cederà il posto allo scetticismo al cinismo e al nichilismo. La linea di confine tra vero e falso, tra bene e male sparisce e la società precipita in uno stato di autentica anarchia mentale morale e culturale. Nessuna società può resistere a lungo in tali circostanze.”
L’abilismo
L’abilismo è, in neolingua, l’atteggiamento svalutativo verso le persone con disabilità, in base all’assunto che la “normalità” sia discriminatoria e la sua affermazione attraverso il linguaggio offensiva per una serie potenzialmente infinita di categorie. L’uso di termini abilisti favorirebbe la convinzione che chi vive una disabilità o una “diversità “ ( la parola chiave) sia anormale.
La soluzione è l’adozione del linguaggio “person-first”, ovvero di una locuzione contorta, spesso oscura o complessa, che inizia con il termine “persona “. Nelle intenzioni la modifica lessicale “aiuta a non definire le persone in base a una sola delle loro caratteristiche”. La realtà è che il meccanismo finisce per negare ciò che vede, finendo per focalizzare ancor più ciò che si propone di nascondere. Il disabile costretto sulla sedia a rotelle deve essere ridefinito “persona che utilizza una sedia a rotelle”.
Resta la costrizione legata a una condizione sfortunata, ma gli occhiali rosa anti abilisti affermano che “gli utenti (!!!) di sedie a rotelle spesso le trovano uno strumento essenziale per la loro libertà invece di considerarle una prigione.” Nascondere la realtà sembra il fine di quest’astrusa acrobazia da paese dei balocchi.
Neolingua gender based
La neolingua raggiunge vertici di ribaltamento cognitivo nell’ambito detto “gender based”, basato sul genere. “È sempre preferibile chiedere a una persona come desidera essere chiamata invece di fare supposizioni.” Ossia, io non posso ritenere che il mio interlocutore sia un uomo poiché ne ha l’aspetto, la voce, l’atteggiamento, l’abbigliamento. Sarà una “persona con utero” ? Ogni professione o condizione che contenga un riferimento maschile deve essere riformulato, sostituendo “man” (uomo) con “person”. Ad esempio chairperson, anziché chairman, presidente. E’ visto con sospetto anche il termine transgender (transessuale) poiché potrebbe essere usato in senso dispregiativo. La neolingua procede per sottrazione: “straight”, diritto, usato anche nel senso di sessualmente normale, va espunto in quanto tenderebbe a considerare “curvo, non normale chiunque non sia eterosessuale”.
Il meccanismo linguistico person- first assume non di rado connotati ridicoli: homeless, senzatetto, diventa “persona senza abitazione” (without housing). Gli sventurati sarebbero certo più felici se la classe dominante si impegnasse a trovar loro casa, piuttosto che inventare termini insensati. Non va meglio ai carcerati, la cui definizione neolinguistica è “persona condannata che è stata incarcerata”. “Persona impegnata nel lavoro sessuale” sostituisce prostituta/o. Lo sbocco finale è quello intuito da George Orwell: il linguaggio si impoverisce, decade sino all’afasia, nell’impossibilità di esprimere concetti, descrizioni, idee. Con l’aggravante di complicare il lavoro del cervello e di instillare assurdi sensi di colpa. Avrò pensato una cosa brutta, dannosa, scorretta? Sono una persona malvagia? Il potere diventa biopotere, dominio sull’intera vita. Il cerchio si chiude. Sulle persone con utero e su quelle che non ce l’hanno.
Roberto PECCHIOLI
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