Oicofobia, intervista a Spartaco Pupo, classe 1974, è professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università della Calabria. Studioso, in particolare, del pensiero politico di David Hume, di cui ha tradotto tutti gli scritti politici nella loro prima edizione italiana integrale (Libertà e moderazione. Scritti politici, 2016), di Robert Nisbet (di cui ha curato l’edizione italiana di Conservatism), e della storia del pensiero politico scettico (ne ha scritto ampiamente nel volume Lo scetticismo politico, 2020), è autore di numerose pubblicazioni, l’ultima delle quali, appena uscita, ha per titolo Oicofobia. Il ripudio della nazione (Eclettica, 2023). Lo abbiamo intervistato.
Partiamo dal titolo: perché scrivere di Oicofobia?
Perché è un problema sociale, prima che individuale, rimasto a lungo inesplorato, benché si presenti come l’altra faccia della stessa medaglia rispetto alla più nota xenofobia. L’oicofobia, che etimologicamente è l’unione di due parole greche: oikos, che vuol dire “casa”, e phobos, “paura”, è il terrore del nostro “retaggio”, della nostra “cultura”, della nostra “identità”. Mentre la xenofobia come paura dello straniero, è in grado di colpire chiunque, indipendentemente dal ceto sociale e dal grado di istruzione delle persone che ne soffrono, l’oicofobia tende a generarsi nelle menti più acculturate, dotate di una certa capacità riflessiva e ideologicamente orientate verso un corpus di ideali universalisti, materialisti e naturalisti. Oicofobo è chi inorridisce al solo pensiero di doversi trovare a difendere la prima persona plurale, il Noi, assimilabile alle idee di “nazione” e “identità nazionale” e di conseguenza capace di attirarsi le accuse di nostalgia, sciovinismo, xenofobia, razzismo, ecc. L’oicofobo ripudia le lealtà locali e persegue ideali contro la nazione, sostenendo l’universalismo di istituzioni transnazionali, accettando leggi imposte dall’alto e definendo la sua visione politica in termini di valori purificati da qualsiasi riferimento ai particolari sentimenti di attaccamento a una reale comunità storica. Si tratta di una delle fobie più subdole dell’intellettualità occidentale che, sull’influenza di svariate scuole di pensiero neomarxiste e liberal, pretende la distruzione di ogni possibile riferimento all’identità, anche quando essa è intesa non come nazionalismo, ma come patriottismo o modello sociopolitico di integrazione.
La neolingua, frutto del pensiero dominante, ci impone l’uso di molteplici termini contenenti il lemma “fobia”, dalla “xenofobia” all’inflazionatissima “omofobia”. Fino a che punto, a suo avviso, è diffusa la conoscenza del loro esatto significato e quanto, invece, vengono usati come spauracchi per demonizzare chi non è allineato?
Benché la conoscenza reale di queste fobie sia appannaggio di una ristretta cerchia di specialisti, tra psicologi sociali e alcuni sociologi, esse sono cavalcate dall’onda massmediatica, abilmente orientata da ideologi egemoni e incontrastati, che ne demonizza gli effetti in termini di relazioni sociali. La guerra di propaganda e persecuzione delle forze anti-globaliste prevede il ricorso all’ostracismo, variamente attuato, a seconda dei contesti e delle situazioni specifiche, contro chiunque si discosti dal verbo universalista e dal dogma anti-identitario. L’ideologia universalista tenta di “depoliticizzare” la persona e sostituire la politica con la morale, perseguendo un cosmopolitismo che nega ogni valore alla libertà di coscienza individuale ed enfatizza il “risentimento” nei confronti della storia, che secondo i loro fautori è solo di errori, colpe inespiabili e gravi responsabilità. Questo esotismo ideologico non trova argini e crea danni irreversibili alla tenuta delle istituzioni ereditate che sono da abolire per il semplice fatto di essere ereditate. Il risultato? Società alienate e drogate. Lo stesso progressismo ha finito per negare ogni bene oggettivo. La “cittadinanza globale”, cui aspira l’universalismo, è un marxismo riadattato per cui ogni differenziazione politica va cancellata e sostituita con un’astratta razionalità tecnocratica, a priori, che annulla la saggezza e l’umiltà proveniente dall’esperienza. Quasi tutte le degenerazioni del progressismo universalista, dalla cancel culture al politicamente corretto hanno una matrice oicofobica.
Nel contesto attuale che prospettive vede affinché nei giovani si diffondano e si affermino i valori dell’identità?
I giovani osservano l’oicofobia, la vivono nel loro quotidiano senza riconoscerla però come tale, perché chi di dovere non ha sin qui fornito loro i necessari strumenti analitici, fenomenologici ed ermeneutici per farlo. Per effetto di questa grave negligenza e per il bombardamento oicofobico dei mass-media, i giovani sono portati a considerare “normale” la portata rivoluzionaria dell’oicofobia, facilmente individuabile in atteggiamenti, condotte e punti di vista legati al vissuto quotidiano, come, ad esempio, una folla inferocita che abbatte o imbratta la statua di un personaggio simbolo del proprio paese perché sospettato di razzismo, benché sia vissuto in contesti molto diversi da quello attuale. Il mio libro è proprio un invito ai giovani, affinché imparino a riconoscere le subdole rappresentazioni dell’oicofobia e prendano le adeguate contromisure per contrastarla. Se lo leggono, vi trovano qualche suggerimento utile a comprendere che riscoprire l’identità nazionale non significa negare accoglienza o solidarietà nei riguardi dello straniero ma amare il prossimo senza odiare noi stessi…
Quali potrebbero essere i compiti della politica in questo senso?
Un solo compito: attuare politiche pubbliche anti-oicofobiche che incidano sulla mentalità dei giovani a partire dalla loro esperienza scolastica e universitaria. Gli strumenti politici, specialmente in Italia, ci sono tutti, ma sembrano latitare, più che le buone intenzioni, gli uomini e le donne realmente preparati a utilizzarli nel concreto, in modo mirato. L’identitarismo di facciata è persino controproducente se alle buone intenzioni non seguono fatti e azioni responsabili. Il processo comunque è lungo, perché si tratta di sostituire la filosofia del sistema, ormai ben radicata e protetta dai gangli di un potere quasi centenario, con quella dell’uomo. Tocca iniziare.
Raffaele Amato