Norma Cossetto e le altre. Le storie degli italiani infoibati dai partigiani titini – La Repubblica Italiana riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
Questo è quanto previsto nel primo comma dell’art 1 della legge 30 marzo 2004, N. 92.
Istituzione del Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo Giuliano -Dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati.
Non basta una legge
Una normativa nata troppo tardi e che, nonostante la sua entrata in vigore, continua ad assistere a condotte tese a minimizzare, a sollevare dubbi o, addirittura, a negare l’eccidio delle foibe.
Come successo, ad esempio, a Norma Cossetto, la studentessa italiana, istriana di un villaggio nel comune di Visignano, violentata e uccisa dai partigiani jugoslavi nei pressi della foiba di Villa Surani.
La giovane infoibata è infatti puntualmente bersaglio di atti di vandalismo sulle sue targhe o di scetticismo sul suo stupro.
Ma la Cossetto non è la sola vittima di questo eccidio, a lei, purtroppo, se ne aggiungono tante altre.
Come le sorelle Radecchi: Albina, Caterina e Fosca.
L’arresto delle tre donne da parte dei partigiani fu dovuto al semplice fatto che le sorelle, lavorando in una fabbrica di Pola, al ritorno dal lavoro, si soffermavano a parlare ogni sera con alcuni militari del vicino distaccamento di Fortuna, nei pressi di Altura, dove erano di base alcuni reparti della Regia Aeronautica.
Sequestrate dai partigiani titini
Pare che sia stata proprio questa innocente frequentazione la causa dell’arresto, che ebbe luogo nei giorni successivi all’8 settembre 1943.
Le Radecchi vennero prelevate di notte e condotte a Barbana, dove furono ridotte a sguattere.
È lì che per le tre donne ebbe inizio un vero e proprio inferno.
Infatti, in quel periodo, vennero violentate diverse volte, fino a quando si decise la loro eliminazione.
Secondo le ricostruzioni, fra il 2 e il 5 ottobre (giorno dell’uccisione) le sorelle, prima di andare incontro alla morte, vennero nuovamente violentate e seviziate dai loro carcerieri.
L’estremo sacrificio
Atrocità che trovarono conferma nella relazione del maresciallo Harzarich che, infatti, segnalava il ritrovamento del corpo di Albina senza indumenti intimi, mentre quelli delle altre due sorelle erano strappati.
La morte delle tre donne, però, avvenne in modo diverso.
Infatti, mentre il corpo di Albina venne ritrovato con una ferita da arma da fuoco alla testa, le due sorelle minori presentavano solo varie fratture al cranio, il che fa presumere che furono gettate nella foiba ancora vive. Accanto alla foiba di Terli vennero ricomposti i corpi della tre sorelle e di Amalia Ardossi.
Le sole quattro donne delle 26 vittime estratte dalla foiba di Terli e tra queste ci fu anche un ragazzo di 18 anni.
Ignoti gli assassini
Purtroppo, non fu possibile risalire ai nomi dei responsabili di questi orrori, legati solamente ad alcune testimonianze dirette o indirette, dal momento che non fu mai effettuata una ricerca specifica sulla foiba sopracitata.
Ivan Kolić (Giovanni Colich) di Barbana è il solo personaggio che viene regolarmente citato come capo dei partigiani della zona di Barbana, considerato di conseguenza come principale responsabile degli omicidi e la cui sorte resta ignota.
Tornando alla foiba di Terli, questa è un inghiottitoio carsico nel comune di Barbana (Istria). Gran parte dei corpi presentava ferite d’arma da fuoco al corpo e alla testa.
Il macabro rito barbarico slavo
In fondo alla foiba fu trovato anche il corpo di un cane nero.
Questo ritrovamento era legato a un rituale balcanico primitivo.
Infatti, gli slavi gettavano nella foiba un cane nero affinché i latrati di dolore perseguitassero le anime degli infoibati. Sull’imboccatura della foiba, la scoperta di altre tracce di disumanità come quelle di proiettili, interpretate come prova che gli uccisori avrebbero sparato dall’alto sui condannati gettati nella foiba.
La storia degli infoibati di Terli fu ricostruita grazie a diverse testimonianze di parenti e vicini.
Le vittime provenivano dai paesi della Bassa Istria vicini a Barbana: Medolino, Marzana, Altura, Carnizza, Lisignano e Lavarigo, ed erano state arrestate dai partigiani nella seconda metà di settembre, per essere rilasciate nei giorni successivi.
Al sopraggiungere dei tedeschi (2 ottobre), i partigiani procedettero ad un secondo arresto.
A quel punto gli arrestati furono condotti in una casa di Barbana, dove alcuni subirono varie violenze e sevizie, per finire tutti uccisi il 5 ottobre.
Secondo le testimonianze raccolte, le vittime di Marzana – prima di essere trasportate a Barbana – dovettero sottoporsi ad una tortura aggiuntiva, costretti in piazza a bere della nafta di fronte ai parenti e compaesani.
Vista la qualifica delle varie vittime si giunse alla conclusione che questi omicidi siano da ascriversi a motivazioni di vario tipo, in quanto tra i trucidati vi furono anche dei noti antifascisti, il che fa supporre a una morte dovuta a vendette personali.
Non vennero risparmiati neanche i bambini
Tra le vittime delle foibe ci furono piccoli innocenti.
Un orrore che è stato oggetto di una dettagliata ricerca condotta dalla giornalista Simona Sardi e da cui sono emerse storie macabre con dettagli che lo sono altrettanto.
Da quanto è emerso finora sono 55 i nomi di minori uccisi.
Si tratta di bambini arrestati e, nel caso delle ragazzine, anche violentati, per poi venire gettati nelle foibe del Carso e dell’Istria, o annegati, nelle foibe blu della Dalmazia, o seppelliti nelle fosse comuni dell’alto goriziano, Udine e Pordenone.
Prima di essere condannati a morte certa i minori subivano un vero e proprio calvario.
Questi venivano prelevati di notte dalle loro case, da soli o con quel che restava delle loro famiglie, legati così stretti dal filo di ferro che, a volte, i polsi si spezzavano.
La legge della giungla
I nomi delle piccole vittime sono venuti fuori, dopo mesi di ricerche e indagini, oltre due anni di ricerche e oltre 400 esuli raggiunti, il tutto paradossalmente facilitato dal Covid, in quanto tutti erano chiusi in casa e con il supporto documentaristico in primis di Lega Nazionale di Gorizia, Fondazione Rustia Traine, Associazione Silentes Loquimor, Elenco dei Caduti e dispersi RSI Livio Valentini, l’Albo D’Oro di Luigi Papo, l’Archivio storico del Ministero della Difesa e della Farnesina, l’Elenco di Padre Flaminio Rocchi.
Tra i nomi delle piccole vittime c’è la tredicenne Alice Abbà, una ragazzina di Rovigno. Secondo la testimonianza della nipote che porta il suo stesso nome, la ragazzina venne arrestata insieme alla madre Giuseppina Micoli, moglie di Giorgio Abbà, vigile urbano, infoibato intorno al 16 settembre 1943, a Vines (oggi Vinež in Croazia).
L’imperdonabile pecca di Alice?
Aver denunciato con la madre gli assassini del padre, quanto basta per farle avere il marchio di fascista.
La tredicenne venne stuprata, picchiata e infoibata, si presuppone nella vicina foiba di Moncodogno, il 12 febbraio 1945.
Seviziate e violentate anche la quattordicenne Pascolini Noemi e la sorella Matia, 11 anni.
Con loro fu infoibato anche il fratellino di 13 anni, Odorico.
Tra le giovanissime vittime anche il quattordicenne Rino Piani, zona Premiaracco, seviziato con la madre, infoibato nel gennaio del 1945, ritrovato dopo alcuni mesi e seppellito nel cimitero di Ipplis.
Una sequela di orrori senza fine
Il diciassettenne Arnaldo Codan, di Parenzo, fratello di Mafalda Codan, ucciso dopo atroci torture nelle carceri di Pisino (oggi Pazin in Croazia) e gettato nella foiba di Vines, nel maggio del 1945.
Alla lista degli innocenti oltre agli adolescenti ci sono anche i bambini, come Graziella Saturnino, di 5 anni, infoibata nel settembre ’43 vicino Dresenza Picco di Caporetto (oggi Slovenia), insieme ai fratellini Martino, 4 anni, Nerina, 2 anni, Valentino, 10 anni e la madre Firmina: le salme sono estratte nell’ottobre 1943.
Tra le famiglie infoibate da ricordare Romano Casa, di 13 anni di Mattuglie Elsane, infoibato con la sorellina, Pasqualina Maria di appena un anno e mezzo e il resto della famiglia Casa, nella zona di Divaccia Erpelle (oggi in territorio sloveno).
Il motivo di questa strage familiare?
Il padre delle piccole vittime, un casellante ferroviario, si era rifiutato di collaborare con una banda di partigiani per un attentato sulla linea ferroviaria.
Tante storie dissolte dalle bombe
A questi orrori da aggiungere altresì che le denunce legate ai minori scomparsi, se verbalizzate, sono andate distrutte nei vari bombardamenti, incendi e apposite manomissioni dal 1943 in poi.
Per far sì che gli archivi registrassero i loro nomi si dovrà attendere il ritrovamento dei corpicini straziati.
Come il caso della famiglia Faraguna detti Bembici, uccisi dai Kos, di Ripenda presso Albona (oggi Labin in Croazia).
Un tedesco come secondo marito e qualche invidia di mezzo portarono 4 adulti infoibati nelle grotte salate di Smokvica verso Fianona, e il bambino di 3 anni, Paris, ucciso in mare e ritrovato lacerato, sulla spiaggia a parecchi km di distanza.
Da ricordare altresì la storia del noto farmacista di Zara, Pietro Ticina, annegato con tutta la sua famiglia e la piccola figlia Maria, di quattro anni.
La mattanza familiare passò alle cronache perché La Domenica del Corriere dedicò loro la copertina, nel gennaio del ’45.
Il numero delle vittime sale dove le fosse comuni erano più facili da scavare e oggi si ritrovano coperte da rovi o da vigneti, qualcuno le chiama fantasma anche se, i vecchi ricordano di mattanze su civili inermi, come intorno a Gradisca, Cormòns, Tolmezzo, Manzano, Oleis, Roccabernarda, Attimis, Premariacco, Corno di Rosazzo, tra la pianura friulana, le Prealpi Giulie e le Carniche, dove i paesi erano più che altro villaggi agricoli.
Vittime il cui ricordo è rimasto per tanto, troppo tempo in fondo a un fosso. Ecco perché ricordare è un dovere principalmente morale.
Nemes Sicari
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