L’incolmabile fossato tra USA ed Europa
Il più celebre articolo di Sergio Gozzoli (1930-2015) è reperibile sul Numero 19 de “L’Uomo Libero” del 01/10/1984. Dopo quarant’anni, la sua forza ed attualità rimangono inalterati. E andrebbero ripresi.
Capire il presente per viverlo al meglio nel realismo tomista, che si proietta verso un futuro di medio e lungo termine è il compito di un analista politico, che non scrive quello che gli piacerebbe che fosse, ma ciò che è e che tramite i fatti appare come più plausibile, attraverso fonti credibili e documentate.
Uomo Libero
Lasciamo parlare Gozzoli: “un Europeo, in qualunque città o borgata venga alla luce, apre gli occhi su di una realtà in cui presente e passato sono inestricabilmente frammisti.
Gran parte di quel che lo circonda è antico. Talora, antichissimo.
Da Altamira a Kiev, da Cnosso a Stonehenge, l’ambiente nel quale egli si muove ha il respiro lungo dei secoli, quando non dei millenni. Può anche nascere e crescere nel quartiere più moderno della più moderna delle città, e tuttavia prima o poi — spesso ancora ragazzo — egli incontrerà fatalmente le testimonianze del “suo” passato.
Testimonianze non fossili, ma vive, componenti sostanziali del mondo nel quale è immerso e nel quale si forma.
Che egli lo voglia o no, l’antico vive in lui, ed indelebilmente gli sedimenta dentro, nei sensi e nello spirito, una qualche sorta di amore e di rispetto per il passato.
Diversamente dall’Europeo, un americano cresce in un ambiente del tutto “moderno”.
L’americano
Quel che immediatamente si offre ai suoi occhi e al suo cervello sono la geometrica ripetitività di edifici informi, il brulicare di autoveicoli per strade che sembrano tutte uguali, lo squallore monotono del cemento e della plastica, la petulante volgarità policroma delle insegne pubblicitarie.
Anche l’Europeo, certo, riceve oggi fra le prime impressioni ed esperienze di vita la luce fredda del neon, i colori chiassosi della plastica e delle vernici, l’insensata violenza di musiche sincopate a tutto volume.
Ma la differenza sta nel fatto che il giovane americano, crescendo, non conosce altro che questo. L’asfalto e il cemento, il vetro e l’alluminio, la plastica e il neon gli appaiono realtà del tutto “naturali”.
Col tempo, poi, egli apprenderà certamente a riconoscere la natura autentica: incontrerà i fiumi e le foreste, le rocce e le praterie, le montagne e gli oceani — la cui età si misura in miliardi di anni.
Qualcuno anzi, nei casi più fortunati, può persino nascervi a stretto contatto.
Ma intorno a lui, fra quel che fu prodotto dalla mano dell’uomo, di “antico” non vi è nulla.
Il passato, l’antico
La verità è che, ad un americano, tutto ciò che è antico appare estraneo, incomprensibile e, in qualche modo, ostile.
Questo non significa che un americano non possa sentire il fascino del passato, fino a soffrirne la mancanza in una sorta di provincialistico complesso.
Ma si tratta in quel caso di un capriccio intellettuale, di un “prodotto” culturale consentito soltanto a chi abbia ricevuto una educazione di tipo umanistico e di livello superiore; e il «passato» che egli può amare è allora quello dei musei, dei trattati di storia, dei testi di letteratura.
Fatte salve le eccezioni di alcuni grandi spiriti, nessun americano — anche se colto — potrà mai comprendere e amare il passato nella vita, il passato come persistente presenza, come memoria propria, come radice e linfa viventi nel suo presente.
In fondo, l’Americano è inconsapevolmente portato a nutrire diffidenza e disprezzo per il passato, per la semplicissima ragione che egli non possiede un passato.
Tra i molteplici fattori — genetici e ambientali — che concorrono alla formazione di quel profondo nucleo interiore che “fa” la psicologia di un uomo, fra l’Americano e l’Europeo v’è una seconda differenza capitale.
Ambiente omogeneo
Un Europeo cresce e si plasma in un ambiente sostanzialmente omogeneo.
Se prescindiamo dalle eccezioni rappresentate da alcune metropoli o città portuali — soprattutto in Inghilterra, Francia e Olanda — dove vivono grosse comunità di neri, mulatti, nordafricani e asiatici, nella massima parte del continente l’Europeo vive in mezzo a gente simile a lui.
Quand’anche si tratti di gente che non parla la sua lingua o il suo dialetto — come nelle zone minerarie o industriali a forte immigrazione di lavoratori stranieri — sono uomini e donne che non differiscono da lui in modo sostanziale, né per colore della pelle e tratti somatici, né per indole e inclinazioni. Saranno più o meno biondi, più o meno bruni, più o meno compassati o passionali, ma non sono più diversi di quanto non lo siano, entro i confini della stessa nazione, un alsaziano da un marsigliese, un bavarese da un prussiano, un friulano da un romagnolo.
Le grandi divisioni culturali, come quelle linguistiche e religiose, sono a confini abbastanza netti, e a vasti compartimenti stagni. In genere, un cattolico vive in un’area cattolica, un luterano in una regione luterana, un anglicano in un paese anglicano.
L’integrazione
Le ragioni di disagio, malcontento e disadattamento — e quindi di tensione o ribellismo — sono di ordine individuale, o economico, o politico, non certo di ordine etnico o culturale.
L’integrazione fra le diverse componenti sociali avviene in genere in modo spontaneo — nella scuola, in chiesa, sulla piazza, al bar, in treno, allo stadio, nell’esercito — senza conoscere grossi steccati o resistenze, se non quelli posti dalla fisiologica dialettica della vita consociata presso qualsiasi popolo da che mondo è mondo. Le inclinazioni, gli interessi, le passioni, gli usi, le mode sono comuni, o largamente condivisi.
Questa sostanziale omogeneità, questa naturalezza di integrazione, questa comunanza di caratteri e di abitudini, che fin dall’infanzia l’Europeo trova nella sua vita di relazione, e che generalmente esprimono le inclinazioni sue e delle generazioni che lo hanno preceduto — naturalmente simili — fanno sì che egli, più o meno consciamente, abbia della società una concezione «organica». Potrà anche sentire estraneo e ostile lo Stato — e tanto più quanto più lo Stato, nel farsi complesso e astratto, si allontana da questa organicità sociobiologica — ma il legame con la sua comunità «naturale», famiglia, campanile, popolo, è fortemente avvertito e vissuto, non solo nelle campagne e in provincia, ma a tutt’oggi anche nella maggior parte delle città della vecchia Europa.
L’Americano, al contrario, nasce in una «società», eterogenea, ibrida e multiforme, oggi denominata fluida, e il Sistema intende trasformare l’Europeo in un americano, abbattendo i suoi tradizionali legami naturali.
Se la molteplicità delle Chiese, delle confessioni, delle sette, ha condotto gradualmente ad una fondamentale tolleranza religiosa, essa concorre però pesantemente a frammentare e polverizzare la cultura e la psicologia nazionale.
Non vi è una America, ve ne sono cento.
Il tanto vantato patriottismo degli Americani non è fondato — se non per il nucleo di ceppo yankee che costituisce ormai una minoranza — sul senso nazionale, ma sull’attaccamento ad un elevato tenore di vita materiale, o, al massimo, sull’orgogliosa coscienza di appartenere al Paese più ricco e potente della Terra: l’attaccamento dell’azionista alla sua prospera S.p.a.
In qualsiasi Paese del mondo, fino a non molto tempo fa, la vita sociale era fondata assai più su tradizioni che su leggi scritte: l’educazione, il reciproco rispetto, i rapporti fra i sessi e fra le generazioni, la dignità personale ed il generale civismo dipendevano assai più dal costume che dal dettato legale. Anzi, in quegli ambiti della umana convivenza che più propriamente attengono al livello di civiltà di un popolo, si poteva affermare che era il costume che produceva la legge. In America, avviene l’opposto.
Non è più una società per uomini, ma per legulei
Alla luce di queste radicali differenze — ben lontane, del resto, dall’essere le sole — trova chiara spiegazione il solco storico-morale che divide l’Europa dall’America: due civiltà, due visioni del mondo, due «stati dell’animo», non solo estranei e lontani, ma abissalmente antitetici.
Qui il senso delle radici, della continuità della vita individuale e sociale al di sopra delle singole generazioni; là l’esasperata percezione del presente, dell’«attuale», dell’up-to-date, come unica dimensione in cui calare i propri motivi esistenziali. Qui la concezione del domani come proiezione profonda del proprio passato, al quale si deve comunque qualcosa in termini morali ed in termini pratici; là, una smodata ansia di futuro immediato, senza obblighi morali verso eredità da difendere e da trasmettere.
Qui un sedimentato senso estetico, un gusto fondamentalmente sobrio e luminoso, radicato nella classicità — più volte rivissuta e rinverdita — delle proprie origini civili; là una pacchianeria smargiassa, una totale mancanza di misura, un infantilismo estetico che si palesa nell’amore per la chiassosità cromatica e per l’arroganza dei suoni e dei volumi.
Qui la coscienza della individualità nazionale, della etnìa, e quindi della appartenenza ad una comunità, là un cosmopolitismo disancorato da ogni centralità sociale e da ogni vincolo interiore.
Qui la tenace sopravvivenza di aneliti al sacro e al trascendente, là, ormai consolidata, la «religione» del laicismo e del benessere materiale.
Qui persistenti e profonde riserve mentali nei confronti della speculazione finanziaria e dell’usura, là un culto fanatico per il successo economico, comunque raggiunto.
Due mondi opposti, dunque, due antinomici principi di civiltà
Attraverso il Fondo Monetario Internazionale che il sistema controlla, attraverso le organizzazioni dell’ONU che sono sue emanazioni, attraverso sigle di comodo come Amnesty International e World Council of Churches , attraverso servizi segreti e forze militari delle alleanze che capeggia, questo Potere manda in bancarotta Paesi che aveva gonfiato di crediti perché fossero ricattabili, fa cadere governi che tentano un sogno di indipendenza, scatena rivoluzioni di palazzo e sommosse di piazza, provoca e accende conflitti, sovvenziona guerriglie: il tutto, dietro una sapiente e orchestrata campagna contro una qualche violazione dei diritti umani — e, naturalmente, all’ombra degli immortali principi democratici e progressisti della ideologia americana.
L’equivoco storico di un Occidente che accomuna l’America all’Europa, di un Atlantico che unisce anziché dividere, è il marchingegno-chiave di tutto il processo di colonizzazione dell’Europa da parte degli Stati Uniti: la colonizzazione economica giustificata dalla dipendenza militare, la dipendenza militare dalla subordinazione politica, la subordinazione politica dal condizionamento culturale, il condizionamento culturale dalla soggezione psicologica.
Nessun europeo, di fronte ad un portoricano di New York, ad un negro di Washington, ad un cinese di S. Francisco, ad un ebreo del New Jersey, ad uno yankee di Boston, può sentirli più affini o più vicini di un polacco, di un magiaro o di un rumeno; e neppure di un ucraino o di un russo bianco.
Degenerazione dei costumi
Ma v’è un altro equivoco — che gioca come sottile strumento di trasformazione dell’Europa in provincia culturale americana — contro il quale è necessario gettare la luce chiarificatrice dell’analisi e della riflessione.
Dal primo dopoguerra ad oggi, attraverso processi di gradualità inavvertibile alternati ogni tanto a bruschi scossoni, tutte le società europee hanno conosciuto radicali trasformazioni di costume.
Da qualunque parte le si guardi, non v’è chi possa negarne gli aspetti degenerativi: la crisi della famiglia, le nevrosi di massa, l’immoralità dilagante, la diffusa insicurezza, la solitudine dei vecchi, lo sbandamento dei giovani, la crescita della criminalità, la nausea della pornografia, lo sconcio della prostituzione selvaggia, la piaga della corruzione, il flagello della droga.
Lo scempio nel campo dei costumi si appaia a quello nel campo del gusto e della cultura — dell’abbigliamento, del linguaggio, della letteratura, dell’architettura, dello spettacolo, della musica, delle arti figurative.
In sostanza, un vero e proprio collasso di civiltà.
Prima dell’ultimo conflitto mondiale, Paesi europei come la Germania, la Francia, la Cecoslovacchia, la Svizzera, la stessa Italia, erano all’avanguardia nella scienza, nella tecnica, nella organizzazione sociale: dalla chimica alle comunicazioni radio, dalla architettura alla legislazione assistenziale, dalle tecniche di propaganda politica alle costruzioni aeronavali, dagli sport di massa alla ricerca universitaria, l’Europa non aveva alcunché da invidiare all’America.
E tuttavia, mentre in America il costume era già da tempo contrassegnato dall’edonismo, dal lassismo sessuale, dal gangsterismo, dalla corruzione, dalla promiscuità, dalla tendenza alla massificazione, il costume europeo restava radicato nelle tradizioni: solida la famiglia, coltivata la cortesia, gelosamente protetta l’innocenza infantile, idealizzata la figura materna, rispettata quella paterna, venerata la saggezza dei vecchi, mitizzato il coraggio dei giovani. La pornografia era confinata nella clandestinità, la prostituzione veniva controllata, la criminalità era bassa, l’omosessualità disprezzata, la droga del tutto sconosciuta.
Dal costume alla cultura, dalla cultura alla consapevolezza ideologica, dalla consapevolezza ideologica alla volontà politica: è una inesorabile catena logica, in cui ognuno degli anelli presuppone il precedente.
Matteo Castagna
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