Le amnesie rivelatrici del centenario Jucci – Con un piede già ben piantato nella fossa – il generale Roberto Jucci non s’adonti, a 98 anni è scontato che più prima che poi… -, un uomo, di norma, si pente dei proprio peccati, oppure, se ha ricoperto ruoli importanti nella società in cui è vissuto e ha operato, rivela qualcosa che non ha mai potuto raccontare prima, dà un contributo alla conoscenza di una qualche verità.
Il generale che piace al PD
Invece, l’ex-capo del Sios Esercito, dell’Arma dei Carabinieri, già ai vertici di altre istituzioni e uffici della sicurezza nazionale, decide di farsi intervistare da un giornale “amico”, La Repubblica, per dare corpo e sostegno a una piccola collinetta di illazioni, tutte ben conosciute.
Che La Repubblica sia giornale “amico” non è detto con malizia: dopo aver smesso la divisa, Jucci è stato “tesoriere” dell’Ulivo, quindi, amico non solo di Romano Prodi, ma anche di quel Carlo De Benedetti che del quotidiano di piazza Indipendenza – nonché de L’Espresso – è stato sempre il “nume tutelare”.
La clamorosa intervista a Repubblica
Ciò premesso, cosa racconta di tanto significativo Jucci a La Repubblica?
In primo luogo, di essere stato allontanato da Roma nei famigerati 55 giorni del sequestro di Aldo Moro, affinché gli fosse impedito di vedere certe cose coi suoi occhi e potesse operare di conseguenza. Qui, una riflessione s’impone: perché mai avrebbe dovuto essere coinvolto in quelle indagini?
Nel 1978, Jucci non aveva alcuna esperienza di investigazioni giudiziarie, poliziesche ed eversive: era a capo del Sios dell’Esercito e, in quanto tale, infatti, richiesto da Francesco Cossiga di addestrare un reparto militare per l’eventuale irruzione nella prigione del presidente del consiglio nazionale democristiano.
Ovviamente, Jucci non spiega il perché di questa sua “pretesa”, se non adducendo i suoi precedenti meriti nell’aver sventato un attentato a Mu’hammar Gheddafi. In realtà, a quel pericolo il leader libico scampò sopra a tutto grazie a Vito Miceli, di cui Jucci era il “vice” e principale collaboratore, ma il generale, oggi, non se la sente di fare quel nome, di riconoscere a Miceli quel merito, nell’ambito di un’intervista con quanti hanno operato per decenni (e inutilmente) per affossare la reputazione dell’ex-deputato del Msi.
Il ruolo dell’URSS
Quel che è certo – perché è lo stesso Jucci a dirlo -, è che il generale non avrebbe mai mancato di riferire dei preparativi per la liberazione di Moro, oltre che a Cossiga, a Ugo Pecchioli.
Un particolare significativo, nell’ambito di un’intervista in cui afferma che anche il Kgb fosse contrarissimo alla liberazione del capo della Dc. Certo, l’età avanzata può indurre Jucci a pensare che gli italiani possano realmente credere che il Poi fosse autonomo dall’Urss, nel 1978. In realtà, le carte a disposizione degli storici e di chiunque altro voglia informarsi realmente sugli “anni di piombo” attestano il contrario.
Tanto più che il quasi centenario Jucci, pur correttamente ricordando la sincerità del Cossiga nel fare di tutto per liberare Moro, si scorda di evidenziare come proprio il Pci fosse il primo e più ostinato rappresentante di quel “partito della fermezza” che pretendeva di non aprire nessuna trattativa con le Br, condannando a morte, così, lo stesso Moro.
Il PCI ha i propri metodi…
Ed è il prigioniero rinchiuso nella “prigione del popolo” a scrivere esplicitamente, in alcune delle sue lettere, che il Partito comunista lo vuole cadavere. D’altro canto, Jucci il meglio, da questo punto di vista, lo esprimere quando dà il suo contributo personale per far passare da feroci anticomunisti e da perfetti “agenti atlantisti” Licio Gelli e Federico Umberto D’Amato.
Come si è dimostrato in un libro, tra i pochi partiti consci del vero ruolo del “venerabile” c’era proprio il Pci, che rilasciò addirittura un attestato di affidabilità democratica e antifascista al capo della massoneria occulta solo due anni prima del rapimento Moro, affinché Gelli potesse scrollarsi di dosso alcune accuse mossegli dal “Messaggero”.
Di D’Amato, poi, fa sorridere come lo stesso Jucci s’interroghi – e chieda ai lettori di interrogarsi – sul perché non si sia approfondito il modo in cui l’ex-capo dell’Ufficio Affari riservati del Ministero dell’Interno avrebbe gestito la vicenda di Giuliana Conforto, legata direttamente alle Br coinvolte nel rapimento di Moro e figlia di Giorgio Conforto, che Jucci stesso ricorda come “agente del Kgb di lunga data”.
I carabinieri della P2
Perché non lo ha mai chiesto a Pecchioli, di spiegargli come si muoveva D’Amato e per conto di chi, se lo frequentava tanto spesso, dato che il “vecchio Ugo” della rete spionistica sovietica sapeva molto certamente? E perché non proprio a De Benedetti, il quale assunse D’Amato come recensore di ristoranti per L’Espresso proprio nel 1979-’80? Curioso, no?
Uno avrebbe tante risposte “in casa” e, invece, va a fare domande in giro…
Poi, il massimo dei massimi, Jucci lo regala ai lettori quando, ricordando i primi tempi da comandante generale dell’Arma dei Carabinieri – e va precisato che, all’epoca, il gran capo delle fiamme d’argento non poteva essere un carabiniere, ma appunto un ufficiale superiore dell’Esercito -, dice di aver scoperto che molti ufficiali dei Carabinieri erano iscritti alla P2 e che tanti, i cui nomi non sarebbero tra quelli ricompresi nell’elenco sequestrato a Castiglion Fibocchi, avrebbero continuato a chiedere udienza domenicale a Gelli in quel di Villa Wanda.
In questo caso, è d’obbligo la citazione testuale: Quando nel 1986 sono arrivato al vertice dei carabinieri, sono andato ad Arezzo e ho chiesto di Gelli al comandante provinciale dell’Arma. Lui mi disse: Qui molti dei responsabili delle istituzioni sono stati voluti da Gelli. Il mio impegno più grasso è stato far ricevere generali la domenica da Gelli.
Licio Gelli, sempre lui
Il lettore de La Repubblica, a questo punto, gongola, scoprendo questa “pagina nera” dell’Italia week-endistica. Altri, sommessamente, notano: Willa Wanda fu perquisita, col ritrovamento delle note liste, nel 1981 e, da quel momento, Licio Gelli restò latitante (o agli arresti) all’estero fino al 1988. Per tanto, quando poteva “ricevere generali la domenica”, il comandante provinciale dei Carabinieri di Arezzo non poteva essere quello in carica nel 1986, atteso che, ogni due o tre anni, quel genere di colonnelli cambia incarico.
Le amnesie a comando
Per altro, i nomi degli ufficiali affiliati alla P2 era noto da 5 anni almeno e, se come dice Jucci, secondo lui erano coinvolti anche altri, dal momento che era diventato il capo, avrebbe dovuto comunicarlo ai giudici o, almeno, alla Tina Anselmi, presidente dell’apposita commissione parlamentare d’inchiesta, e non aspettare 38 anni per raccontarlo a Gianluca Di Feo.
Quindi, o il buon Jucci è comprensibilmente rincoglionito – come è probabile, data la veneranda età – e non è affatto “lucidissimo” come sostiene l’intervistatore de La Repubblica; oppure afferma delle banali falsità. Dimostrando solo, in quest’ultimo caso, quanto sia urgente far aprire i battenti alla nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza politica negli “anni di piombo”.
Massimiliano Mazzanti