L’America come mercato: economia ed elezioni 2024 – “It’s the economy, stupid” (again).
Come più volte ripetuto è risaputo che in America, terra promessa del capitalismo e del biglietto verde, l’andamento dell’economia interna è stata spesso ritenuta essere la chiave per comprendere i cicli elettorali e le vittorie o le sconfitte dei vari candidati alla Casa Bianca.
In un certo senso, l’anomala vittoria di Donald Trump nel 2016, anomala poiché seguiva ad un ciclo di espansione economica, avutosi sotto le amministrazioni democratiche di Obama, robusto ed ininterrotto dallo scoppio della grande crisi finanziaria del 2008-2009, sembrava aver rotto questa previsione.
Faglie americane
Certamente la vittoria di Trump del 2016 e la sua permanenza al centro dell’agone politico nel 2024, fa pensare all’emersione nella società americana di spaccature sempre più forti, tra mondi, verrebbe da dire “antropologicamente” sempre più distanti: che avrebbero in comune una giovane avvocatessa d’affari di New York City, magari di orientamento sessuale fluido ed etnia di appartenenza indefinita, con un allevatore di bovini, bianco e lettore integralista della Bibbia, del Missouri? Differenze antropologiche fondamentali potrebbero ridurre l’importanza del fattore economico quale veicolo esplicativo delle dinamiche elettorali, determinate dal confliggere di mondi sempre e comunque distanti tra sè, al di là della crescita o decrescita del PIL, del Dow Jones etc…
Tuttavia, per tenendo a mente questo concetto, tornando indietro al 2016, ci si potrà anche rendere conto che la crescita dell’economia obamiana, presentava, oltre alle luci, anche le sue orme.
Qualche verità sulla crescita economica
In primo luogo, l’America (e di riflesso tutto il mondo, in particolare quello occidentale), da circa 50 anni ormai (e in particolare dalla caduta del muro di Berlino), esperisce una robusta crescita economica e della produttività (data per esempio delle nuove tecnologie, spesso sviluppate da aziende a stelle e strisce), la quale però non si trasferisce e non implica una crescita corrispettiva del reddito medio.
In poche parole: quello che si osserva è che l’economia cresce molto ma quasi tutti i benefici vanno a pochi, non alla classe media e tantomeno ai ceti popolari, da qui il senso di disillusione e di protesta di quest’ultimi verso le élite, percepite come distanti e con interessi divergenti dai propri.
La politica economica di Biden, nel segno di Trump
Tale problema di fondo sussiste sicuramente anche per l’America di Biden, che pur dovendo chiudere con una crescita stimata al 2024 del 2,7% e una disoccupazione vicino ai minimi storici, forse sotto il 3%, continua a non saper creare una sensazione di benessere diffuso e di ottimismo tra l’elettorato.
Non a caso, nonostante le critiche fortissime fatte a suo tempo Trump sul tema dei dazi alla Cina, l’amministrazione Biden si è guardata bene dal rimuovere i dazi e anzi ne ha imposti di nuovi, evidentemente ben conscia che parte della critica di Trump all’eccessiva apertura al commercio internazionale fosse veritiera e che fosse meglio seguire il solco già tracciato piuttosto che scontentare la classe operaria americana con ulteriori aperture.
Il fattore FED
In secondo luogo (e sulla falsariga del primo), la presidenza Obama aveva beneficiato di 8 anni di politica monetaria iperaccomodante da parte della Federal Reserve, con tassi estremamente bassi e una politica di Quantitative Easing avviata immediatamente a seguito della grande crisi del 2008.
Questo ha sostenuto la crescita dei mercati finanziari (e quindi, di nuovo, soprattutto la crescita della ricchezza finanziaria, il cui possesso è limitato ai ceti più elevati) e l’andamento degli investimenti, senza che si creasse inflazione vista la relativa debolezza sul lato della domanda (e l’assenza di strozzature su quello dell’offerta) che si continuava a registrare nell’economia reale.
Questa fase, con la FED che ha portato i suoi tassi al 5,5% è ormai terminata, con l’inflazione tornata ad essere fortemente positiva post uscita dalle chiusure Covid e a causa di un rincaro dei costi energetici a livello mondiale, oltre che di un ulteriore rincaro dei beni a causa delle crescenti regolamentazioni “green”.
Tamponare l’inflazione
L’amministrazione Biden ha cercato di sostenere l’economia con un gigantesco pacchetto di interventi pubblici e di incentivi, da circa 800 miliardi di dollari, nominalmente mirato a sostenere la “transizione energetica” ma che, in Europa, è apparso soprattutto come un massiccio intervento di sostegno alla propria industria domestica, che è stato per l’appunto chiamato “Inflation Reduction Act”, mettendo l’accento, quindi, sulla riduzione dell’inflazione.
La logica promossa dall’amministrazione Biden sarebbe quella per cui sostenendo le imprese produttrici di energie alternative, si sarebbero ridotti i prezzi energetici e così l’inflazione in generale.
In realtà, pensare che un megapacchetto di stimolo fiscale, sostenendo la domanda di beni nel mercato, potesse ridurre piuttosto che aumentare l’inflazione, non poteva che essere una pia illusione.
Per quanto, anche grazie ai massicci pacchetti di intervento pubblico, fatti comodamente a debito, visto che gli Stati Uniti non si devono preoccupare come noi in Europa di vincoli e parametri, e le condizioni generali dell’economia, misurata in termini di crescita di PIL o di tasso di disoccupazione, siano positivi, la persistenza di un’alta inflazione, con quindi alti tassi d’interessi e di una politica monetaria restrittiva da parte della FED, potrebbero nuovamente rappresentare un problema per Biden.
È quindi il combinato disposto di questi due elementi: eccessiva apertura dei mercati con connessa eccessiva sperequazione della ricchezza prodotta e contesto inflattivo, con alti tassi d’interesse, che rode principalmente la capacità di risparmio della classe media, che potrebbe suscitare un ritorno dell’elettorato verso il campo repubblicano.
Filippo Deidda