La pioggia ci ricorda un eterno confronto: l’imprevedibilità della natura e la “prevedibilità” umana – In questo mese mariano, segnato dall’incertezza delle perturbazioni atmosferiche, più consone ad un mese novembrino, la pioggia si abbatte incessantemente sferzando ogni singola entità, materiale e immateriale, rigida e flessibile che sia. La pioggia precipita copiosamente senza tregua, scorrendo e intrufolandosi in ogni dove, andando a riempire ogni vuoto e a sovraccaricare ogni pieno; allagando, strabordando ed esondando, sollevando manti stradali dalle viscere del terreno come un’entità infernale che tenta di accedere a questo mondo. Una pioggia che crea disagio e pericolo lasciandosi dietro morte e distruzione.
La spettacolarizzazione del meteo
Le previsioni, i bollettini e gli allarmi si susseguono con toni apocalittici, dettando consigli, sconsigli e soprattutto istruzioni comportamentali alla cittadinanza.
Questo quadro disastroso appare curioso, quasi uno scherzo tragico di natura se si pensa alle grida allarmistiche che poco meno di un mese fa informavano riguardo alla problematica siccità, non senza terrorizzare l’opinione pubblica: i canali, i torrenti e i fiumi erano sotto lo zero idrometrico, e il più emblematico, il sorvegliato speciale, era il ‘grande fiume’, il Po. Negli ultimi mesi, quest’ultimo era divenuto talmente asciutto da far emergere vaste dune di terra sabbiosa, rendendolo praticamente innavigabile e destinato a diventare un greto svuotato.
Ai nostri occhi i campi destinati all’agricoltura si mostravano venati di squarci nel suolo, crepe che ricordavano i Cretti dell’artista Alberto Burri, protagonista italiano della corrente Informale; vere opere d’arte a cielo aperto.
Adesso, invece, quelle terre aride, quelle crepe e quei tagli irregolari sono colmi di acqua e di fango. Acqua torbida e sporca frastagliata da frammenti e da residui di ogni genere che si incagliano e affiorano, cadaveri inerti trasportati da chissà dove.
Alzandosi in cielo, si assiste a un paesaggio palustre sottratto all’uomo e dominato da specchi di acqua, dove nemmeno il riflesso è possibile e dove persino Narciso non riuscirebbe a contemplare la sua bellezza.
Ad avanzare inesorabili non sono soltanto i torrenti e i fiumi che sgretolano gli argini, bensì anche i soccorritori, che navigano lungo le strade allagate tra le pareti umide di case silenziose e spettrali. E come nocchieri conducono le piccole imbarcazioni di salvataggio alla ricerca di persone da trarre in salvo, nella speranza che non assolvano il compito di Caronte tra le sponde dello Stige: traghettatori di anime vive e non di anime morte.
La natura ci ricorda la nostra condizione
Ancora una volta, checché se ne dica, la nostra visione del mondo (e sul mondo) necessita di fare i conti con l’imprevedibilità della natura, quella natura che Leopardi ebbe a considerare causa precipua dell’infelicità umana. Una natura definita ‘matrigna’, che ostacola il nostro cammino rendendolo impervio, e alla quale l’islandese ebbe a rivolgersi definendola «nemica scoperta degli uomini», poiché «ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti» . Una natura colpevole di determinare nell’essere umano la tendenza al piacere e il bisogno di felicità, vere illusioni frustrate dall’oggettiva incapacità di soddisfarle: il piacere desiderato è superiore al piacere conseguibile.
Cosa diceva Leopardi
Tuttavia, al di là della parentesi sul piacere, è il medesimo pessimismo cosmico leopardiano a far parlare la natura in risposta al suo interlocutore nel Dialogo della Natura e di un Islandese: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? […] sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità».
La natura non è né amica né nemica. La natura è oggettiva, non è soggettiva. Siamo noi ad averla soggettivizzata tramite la morale e l’etica. E siamo noi ad averla assoggettata, convinti di dominarla in tutto e per tutto. Sia chiaro, questo scritto è lungi dall’essere un panegirico alla natura. Piuttosto, alla luce degli eventi infelici, questa riflessione vorrebbe sensibilizzare il lettore in merito all’imprevedibilità dell’elemento naturale nonostante l’intervento umano e la sua “capacità” di prevedere.
È indubbio che l’essere umano scalpita al solo pensiero di prevedere, e probabilmente senza questa curiosità i disastri sarebbero all’ordine del giorno. Questa volta, però, il disastro si è verificato, e i danni sono evidenti. E questo non per colpa della natura, bensì per l’azione dell’uomo e per colpa dell’uomo. E vorrei sottolineare la distinzione tra: ‘per l’azione dell’uomo’ e ‘per colpa dell’uomo’.
Pianura padana, una storia d’acqua
Nel 2007 l’editore il Mulino pubblicò una raccolta di scritti dello storico Vito Fumagalli intitolata Storie di Val Padana, un’agile lettura che presenta un’immagine variegata di questa vasta area verdeggiante tra mito e realtà, tra foreste e paludi, tra principi e signori, tra monaci e contadini, tra il selvaggio incantato e l’agricoltura irregimentata in età medievale.
A metà del libro si incontra un capitolo dedicato a Le acque, le città, i signori, dove lo storico di Bardi affronta una lettura interessante sull’intervento dell’uomo sul piano infrastrutturale nella Val Padana. Da qui emerge la vera natura dell’essere umano, aiutandoci a capire come l’uomo abbia sempre mutato l’ambiente in cui vive per il suo istinto di sopravvivenza, agendo sul territorio mediante opere di colonizzazione. Ad esempio, chiudendo e deviando corsi d’acqua, o riducendo sempre di più gli spazi boschivi e palustri per soddisfare le esigenze di vita. Questa è l’azione dell’uomo che a mio avviso non dovremmo biasimare.
Poi, però, esiste l’uomo vorace, quello affamato di suolo e di sottosuolo, che per il gusto di sfidare la natura si è spinto sempre oltre, cancellando all’eccesso ettari di zone boschive, il cui «mantello fogliare» agiva e agisce da freno alle abbandonanti precipitazioni e aumentando di conseguenza il pericolo di alluvioni fluviali. Eventi eccezionali già registrati a partire dalle cronache del XIII secolo, che i testimoni e i cronisti dell’epoca non attribuivano ancora all’azione dell’uomo. Fenomeni che lo storico Fumagalli non riconduceva esclusivamente «a variazioni climatiche, [e] a gravi fenomeni meteorologici», ma soprattutto ad un’alterazione dell’equilibrio ambientale, ad una mancanza sul piano strutturale, esattamente come sta accadendo in Emilia-Romagna. In questo caso, sì, possiamo parlare di colpe dell’uomo.
Il progresso non doveva salvarci tutti?
L’opinione di chi scrive è che dovremmo avere cognizione (e non dimenticare) che l’imprevedibile è sempre insito nel prevedibile, nonostante la nostra esistenza sia impregnata, oggi più che mai, da parole come Progresso, Scienza e Tecnica che trasudano presunzione. In questa triade, anzi, in questa Trinità laica elevata a fede, onnipresente e cieca, è insita l’insidia di appannare proprio quella consapevolezza dell’imprevedibilità, di offuscare la vista di fronte alla volontà di natura, anch’essa cieca e capace di colpire democraticamente chiunque, senza alcuna esitazione né tantomeno distinzione, anche di fronte al sapere e ai mezzi atti a limitarne e veicolarne l’azione.
Perché, se da un lato il Progresso, la Scienza e la Tecnica ci hanno condotti sin qua con tutti gli agi di cui godiamo, adagiandoci nell’illusione inerte di avere il controllo, dall’altro lato, il loro eccesivo impiego ha portato l’essere umano a sfruttare e a devastare inutilmente quello stesso territorio che ora tenta di mettere in sicurezza, assistendo a quello che vediamo in queste ore.
Attenti alla trappola del cambiamento climatico
Non dobbiamo compiere l’errore di puntare esclusivamente il dito al cambiamento climatico, bensì dovremmo pensare alle problematicità strutturali che sono emerse in questo turbinio di eventi, anche in una regione come l’Emilia-Romagna, spesso atteggiatasi spavaldamente a prima della classe nell’ambito dell’innovazione infrastrutturale.
Questo cosa significa? Che la santa triade non è “onnisciente” e che i saperi e i mezzi a disposizione non sono stati sfruttati nelle dovute maniere per limitare i danni, e perciò esistono delle responsabilità: la mancata manutenzione e la mancata messa in sicurezza di quelle infrastrutture come i corsi d’acqua non ha fatto altro che aggravare la situazione.
Penso che dal momento in cui l’uomo detiene il libero arbitrio di poter modificare il paesaggio e il territorio che calpesta, così la natura è libera di agire stravolgendo a suo piacimento quanto realizzato dall’uomo, poiché «la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione». Nient’altro.
Riccardo Giovannetti