La guerra terrestre – L’operazione Z e la battaglia di Kiev – Il 24 febbraio, a seguito del riconoscimento di Putin delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lughansk del 21 febbraio, che prontamente hanno richiesto assistenza militare al Cremlino per garantire la propria sicurezza e riconquistare l’integrità dei propri territori, nei rispettivi confini amministrativi, parzialmente occupati dall’esercito ucraino fin dal 2014, è scattato l’attacco su vasta scala per piegare l’Ucraina, ovvero “l’operazione Z” come informalmente la potremmo chiamare, dalla Z comparsa sui mezzi russi (in realtà solo sui mezzi che operavano sul fronte meridionale). L’operazione, bisogna essere chiari, nei suoi obiettivi strategici iniziali, è fallita.
Obiettivi dell’operazione Z
Quali erano tali obiettivi? Con ogni probabilità la rapida conquista di tutti gli oblast ucraini con una maggioranza di popolazione russofona, ovvero la “Novorussiya”, la “Nuova Russia”, evocata da Putin nel suo discorso di guerra e coincidente essenzialmente con tutta l’Ucraina meridionale, da Odessa a Kharkov, passando per gli oblast di Nykolaiv, Kherson, Zaphoryza e Dniepetrovsk oltre che per le aree del Donbass (Donetsk e Lughansk) non ricomprese nelle zone già controllate delle Repubbliche Popolari. Queste le regioni che fino al 2014 votavano a larga maggioranza per il partito filorusso del deposto presidente Yanukovych del Partito delle Regioni e che a seguito della sua deposizione per via del putsch di Maidan, avevano inscenato varie violente proteste filorusse nella primavera del 2014, la cosiddetta “primavera russa”, stroncate però dal duro e pronto intervento di Kiev, fino all’intervento militare nel Donbass.
Offensiva su Kiev
Congiuntamente l’operazione doveva prevedere una rapida puntata offensiva su Kiev (secondo un copione stile Praga 1968 o Budapest 1956), con lo scopo di decapitare le autorità ucraine, causare la caduta del governo e installare nuovamente autorità filorusse che avrebbero dovuto tenere il governo della parte restante del paese, la “Malorussiya” ovvero la “Piccola Russia” secondo la dizione storico-zarista dell’Ucraina, inducendola ad una progressiva “bielorussizzazione”. Il progetto, di ampio respiro politico, probabilmente prevedeva di ricostituire l’unità del “Russkiy Mir” ovvero del “mondo russo”, concetto evocato espressamente da Putin, ovvero quelle delle tre Russie, quella di Mosca, di Minsk e di Kiev, (rispettivamente la Grande Russia, la Russia Bianca e la Piccola Russia) in un solo blocco geopolitico, reincludendo contestualmente, come detto, la Novorussiya direttamente nella Grande Russia di Mosca.
Una forza sottodimensionata
Lo strumento militare messo in campo al 24 febbraio non era adeguato all’ampiezza di tali scopi e vanno sicuramente abbandonate le illusioni secondo le quali l’attacco su Kiev fosse una mera azione diversiva o simili.
Secondo le rivelazioni di Oleg Tsarov, deputato ucraino filorusso, riparato in Crimea dal 2014, l’operazione era effettivamente concepita per durare 72 ore e ricalcava esattamente un progetto di intervento, secondo le stesse direttrici offensive, presentato al Cremlino dal 2014 da parte della dirigenza ucraina filorussa appena estromessa da potere. Recentemente ha parlato dal suo esilio bielorusso anche il vecchio presidente Yanukovych, che avrebbe confermato a grandi linee quanto riferito da Tsarov, discostandosi appena sui tempi, sostenendo che i russi si aspettavano di occupare Kiev e tutta l’Ucraina a est del Dnieper entro il 7 marzo e il resto del paese, fino alle porte di Leopoli, entro il 19 marzo.
Tsarov riferisce che allora il Cremlino prestò poca attenzione al progetto presentato, essenzialmente lasciandolo in un cassetto, preferendo la soluzione diplomatica, procedimento che avrebbe portato agli accordi di Minsk I e Minsk II.
Accordi di Minsk non rispettati
Tuttavia, la puntuale e costante disattenzione degli accordi presi – che prevedevano la ritirata delle truppe di Kiev dal Donbass, la rinuncia da parte delle Repubbliche Popolari all’indipendenza a favore del riconoscimento di uno statuto di autonomia speciale all’interno di una Ucraina riformata in senso federalista – congiuntamente con il ritorno alla Casa Bianca dei democratici, che hanno riavviato le discussioni per l’ingresso di Kiev nella NATO, oltre a confermare il sostegno alle dichiarazioni della dirigenza ucraina circa la propria volontà di ricostituire la propria sovranità sulla Crimea anche manu militari (scenario che, se realizzatosi, poneva Mosca nella prospettiva di dover o cedere la Crimea senza combattere o di ingaggiarsi in un conflitto armato con un paese membro dell’alleanza atlantica); la situazione è divenuta agli occhi del Cremlino insostenibile, decidendo di passare all’azione e rispolverando quindi il piano di Tsavor.
I problemi principali da parte russa, pare essenzialmente di errata valutazione politica, ancor prima che di intelligence, risiedono probabilmente nel riaver applicato il piano del 2014 senza variazioni rispetto agli 8 anni trascorsi, come se la situazione ucraina fosse congelata ai tempi di Maidan e dell’anti-Maidan della Primavera Russa.
I russi sicuramente contavano su ampie defezioni nell’esercito ucraino, sia a livello di truppa che a livello di alti comandi, ciò è d’altra parte confermato dall’appello di Putin, lanciato tre giorni dopo l’inizio delle operazioni ai militari ucraini di rovesciare il governo di Zelensky e di venire a trattative, oltre che ai soldati di disertare e di consegnarsi alle truppe russe.
Piano obsoleto
Probabilmente ciò si sarebbe potuto realizzare nel 2014, nulla di tutto ciò è invece avvenuto nel 2022. Evidentemente nel corso degli anni, le epurazioni dei vertici militari e politici filorussi dagli apparati ucraini è stata ben più vasta di quanto si aspettassero i russi, similmente – per quanto sicuramente non si possa contare sulle esagerazioni della propaganda occidentale – è anche chiaro che in questi anni (complice anche la guerra nel Donbass che bene o male ha contribuito a rafforzare un certo sentimento nazionale ucraino costruito essenzialmente su di una virulenta dialettica antirussa) siano maturati anche sentimenti nazionalistici ucraini più forti del previsto.
Probabilmente i russi prevedevano di non dover condurre una vera e propria guerra (ma, per l’appunto, una “Operazione Militare Speciale”), aspettandosi defezioni e rese immediate da parte di grandi settori delle forze armate ucraine, da qui l’errore fondamentale di aver piegato su direttrici d’attacco troppo numerose forze troppo esigue.
In aggiunta, nelle fasi iniziali delle operazioni si è anche osservata una generale scarsa incisività delle operazioni offensive russe, come se gran parte della propria forza di fuoco (o un uso massiccio dell’artiglieria che si vedrà solo in seguito) non venisse impiegato per infierire sulle unità ucraine o per evitare possibili vittime civili, tutte preoccupazioni comprensibili in uno scenario da “Operazione Speciale”, molto meno in una guerra aperta. Anche questo ha portato i russi inevitabilmente a subire in questa fase grandi perdite, perdendo l’occasione di distruggere molte unità ucraine nei primi momenti del conflitto.
L’attacco su più direttrici
L’attacco russo si è svolto su più direttrici offensive, scomponibili in due macrosettori ovvero il settore nord (usando la Bielorussia come base operativa), con obiettivo principale Kiev, e il settore sud, con obiettivo tutta la Novorussiya da Odessa a Kharkov.
Con ogni probabilità se fosse stato prioritizzato uno solo di questi obiettivi, concentrando alternativamente le forze a nord o a sud, i russi sarebbero riusciti nei loro intenti (in particolare a sud dove, anche grazie al supporto delle milizie di Donetsk e Lughansk l’offensiva ha avuto comunque certi successi, arenandosi solo per la mancanza di uomini e forze adeguate). Il front nord, quello che avrebbe dato avvio alla battaglia di Kiev, si muoveva a sua volta su quattro assi principali: il primo che dalla Bielorussia muoveva sulla sponda occidentale del Dnieper direttamente su Kiev passando per la regione di Chernobyl, il secondo che puntava su Chernigov, il terzo su Konotop nell’oblast di Sumy per puntare su Kiev da est (un percorso di circa 300khm) e il quarto che doveva puntare direttamente sulla città di Sumy (a pochissima distanza dal confine russo) per poi arrivare da lì di nuovo su Kiev.
Il fronte sud, quello che doveva completare la presa della Novorussiya, aveva invece tre assi di avanzata principale: uno da Kharkov, che avrebbe dovuto prendere la seconda città dell’Ucraina (quasi interamente russofona e che nel 2014 era a un passo per dichiarare un proprio referendum di secessione sulla falsariga di Donetsk e di Lughansk), uno dal Donbass, diviso poi nei due assi di Lughansk e Donetsk e uno dalla Crimea, diviso anch’esso in due assi, uno verso est verso l’oblast di Zaporyzha per ricongiungersi con le forze di Donetsk e uno verso ovest che sarebbe dovuto arrivare ad Odessa (con un ipotetico supporto navale come già visto), passando per Kherson e Nykolaiev.
Assenza di un comando militare unitario
A contribuire al fallimento globale dell’operazione anche l’assenza di un comando militare unitario nelle operazioni, essenzialmente ogni direttrice di offensiva operò in maniera autonoma, mancando una visione e un coordinamento di insieme. A questo problema, fu poi posto rimedio dopo il 25 marzo e il ritiro russo da tutto il settore nord, con la nomina del generale Dvornikov al comando unitario delle operazioni, generale noto per le sue capacità organizzative più che di comando delle truppe in battaglia. In Siria il suo comando durò 6 mesi e in quel periodo si occupò essenzialmente di costituire un comando unitario e un coordinamento tra le diverse forze russe, siriane, libanesi ed iraniane.
Come in Siria, terminata la sua opera di coordinamento, Dvnornikov ha potuto cedere nuovamente lo scettro di comando ad un generale da battaglia come il generale Surovikin, andando ad occupare a Rostov, al comando del distretto meridionale russo, un ruolo di retrovia, volto principalmente ad organizzare la logistica a supporto delle operazioni di combattimento.
Su tutte le soprariportate direttrici offensive, solo ed esclusivamente a Kherson sembra che i russi abbiano potuto beneficiare di qualche appoggio sotterraneo da parte degli ufficiali ucraini chiamati a comandare la piazza, il facilissimo attraversamento russo del Dnieper, avvenuto con convogli militari che sfilavano indisturbati in pieno giorno sul grande ponte Antonovsky, rimasto intatto senza nessuna azione di sabotaggio del genio ucraino, ha fatto subito pensare a delle connivenze con i russi.
Con ogni probabilità i russi si aspettavano che quanto avvenuto a Kherson si sarebbe dovuto replicare in tutto il paese, tuttavia, come visto, ciò che doveva essere la norma, si è limitato ad essere l’eccezione.
Non è il vecchio KGB
Il fallimento globale dell’infiltrazione negli apparati statuali ucraini, oltre a riposare sulle già richiamate incomprensioni politiche, sembra anche essere attribuibile, in particolare, ad un fallimento della Quinta Sezione dell’FSB.
I servizi d’informazione russi sono divisi in tre branche: il FSB, diretto erede del KGB ed incaricato della sicurezza interna, dalla cui fila viene direttamente Putin che detiene quindi un rapporto speciale col servizio, il SVR ovvero il servizio rivolto agli esteri (il cui direttore Naryshkin, che esprimeva tentennamenti sull’operazione e che è stato pubblicamente umiliato da Putin il 21 febbraio, segno che probabilmente il suo servizio aveva espresso dubbi sull’operazione e anche sulla possibile reazione della NATO, non condivisi dal Presidente) ed infine il GRU, il servizio militare.
La Quinta Sezione dell’FSB, rispecchia l’omonima Quinta Sezione del KGB a suo tempo incaricata delle operazioni nei paesi del Patto di Varsavia, considerati un “estero vicino” assimilabile agli interni dell’allora Unione Sovietica, ed è stata riportata in auge da Putin che gli ha affidato (in restringimento rispetto alla sfera di influenza sovietica) le operazione rivolte a quell’estero vicino costituito da paesi della CSI (Comunità degli Stati Indipendenti, ovvero le ex Repubbliche Sovietiche divenute indipendenti dal 1991), tra cui, quindi, principalmente l’Ucraina.
Al fallimento della rapida presa dell’Ucraina avrebbe quindi fatto seguito una sostituzione della guida delle operazioni, dal più politico e civile FSB allo strettamente militare GRU, impegnato invece, con esiti decisamente migliori, nel reperimento di obiettivi sul terreno a supporto dello sforzo bellico e della campagna di bombardamenti missilistici in profondità.
L’analisi post mortem
Nel riprendere l’analisi delle operazioni dell’offensiva Z, si può ribadire che è stata l’assenza di truppe il principale vettore del fallimento globale dell’operazione. Ad attraversare il Dnieper a Kherson, pure con il successo già riferito, vi erano meno di diecimila uomini, i quali, da soli, avrebbero dovuto occupare Kherson, Nykolaiv, Odessa e pure Kryvy Rog nella parte occidentale dell’oblast di Dnipropetrovsk.
Questi, dopo la facile e rapida occupazione di Kherson hanno provato ad occupare, nei primi giorni di marzo, Nykolaiev, restando fermi tuttavia ai sobborghi della città visto che, anche la blanda resistenza ucraina, impediva ad una forza così esigua di prendere una città di medie dimensioni come Nykolaiev.
Tentando comunque di arrivare all’obiettivo principale di Odessa (e di operare un ricongiungimento con la vicina Transnistria), le forze russe hanno tentato di bypassare Nykolaiev e lostacolo naturale del fiume Bug, avanzando verso nord fino Voznesensk, per breve tempo occupata dai russi (obiettivo strategico anche per la presenza di una delle quattro centrali nucleari attive in Ucraina), che avrebbe dovuto fare da perno per poter piegare di nuovo verso sud e verso Odessa.
Scarsità di uomini
La scarsità di uomini, il prolungamento delle linee di rifornimento, impossibili da difendere su un’estensione territoriale così elevata, hanno indotto a ritirarsi, combattendo tra marzo e febbraio da Voznesensk così come dai sobborghi di Nykolaiev, andando, salvo ancora qualche puntata offensiva su Kryvy Rog, a consolidare una linea stabile, di fatto coincidente con i confini amministrativi del solo oblast di Kherson.
A est del Dnieper, anche la seconda direttrice offensiva della Crimea, rispetto a tutte le altre, ha avuto un discreto successo, tutto il territorio dell’oblast di Kherson è stato facilmente preso, così come quasi tutto il territorio di Zapohryza, stretto tra una tenaglia i cui due bracci arrivavano una a Energhodar (con la presa della grande centrale nucleare), l’altro a Melitopol.
L’offensiva ha avuto anche successo nella presa del porto di Berdyansk con le già richiamate operazioni anfibie della Marina Russa, che hanno permesso la costituzione del corridoio terrestre che congiunge la Crimea con il territorio russo, la presa completa delle sponde del Mare d’Azov e l’accerchiamento di Mariupol.
Sempre per assenza di forze sufficienti per alimentare l’offensiva i russi non sono proceduti ad investire anche Zapohryza città che è rimasta in mano ucraina, costituendo, per altro, insieme a Dnipropetrovsk un importante snodo logistico per tutte le forze ucraine dislocate sul fronte del Donbass.
Il Donbass
L’offensiva russa in Donbass va invece distinta tra la direttrice di Donetsk e quella di Lughansk, i cui territori erano (e in parte sono ancora) cinturati da una fitta rete di difese e posizioni fortificate ucraine erette a loro contenimento fin dal 2015 e su cui si ammassava (e si ammassa ancora) la forza principale dell’esercito di Kiev.
La concentrazione di forze ucraine e la robustezza delle posizioni fortificate ha impedito che le forze della Milizia di Donetsk sfondassero su tutta la linea (subendo anzi gravi perdite nel tentativo), ancora oggi, nonostante piccoli avanzamenti che si misurano nell’ordine delle centinaia di metri o della manciata di chilometri, gli ucraini tengono le posizioni nelle cittadine di Marynka, Krasnohorivka e soprattutto di Avdiivka, poste a sud-ovest, ovest e nord-ovest della città di Donetsk (che pongono la metropoli seperatista sotto costante pressione militare oltre che di pesanti bombardamenti terroristici sui quartieri civili).
Donetsk
Anche più a nord, dove la linea di contatto divide la cittadina di Torestk a ovest, dalla città di Gorlovka a est, gli attacchi dei separatisti filorussi di Donetsk si sono rivelati fallimentari, con alte perdite ed essenzialmente nessun movimento sulla linea del fronte.
Solo più a sud l’attacco della Milizia di Donetsk ha avuto maggior successo, rientrando nella pianificata offensiva contro Mariupol, lì sono state concentrate le forze principali di Donetsk che ha sfondato le linee e dopo diversi giorni di combattimenti preso la cittadina di Volonvakha ad una ventina di chilometri a nord di Mariupol, mettendola quindi in stato d’assedio.
Di maggior successo la direttrice di Lugansk, dove la Milizia di Lugansk ha immediatamente sfondato la linea di contatto che cinturava la città da nord. Il motivo del maggior successo di Lughansk sta anche nell’estensione minore della linea del fronte, che ha permesso una maggior concentrazione delle forze, oltre che la collocazione del territorio dell’oblast di Lugansk controllato da Kiev, che condivide a nord e a est un confine diretto con la Russia e a sud quello con la Repubblica Popolare, le truppe ucraine si sono quindi trovate immediatamente attaccate da più lati e a rischio di accerchiamento, procedendo quindi a ritirarsi da quasi tutto l’oblast, tenendo solo le posizioni nell’agglomerato urbano di Severodonetsk-Lysychansk.
Kharkov addio
Più a nord ancora è sostanzialmente fallito l’attacco russo su Kharkov che doveva essere una preda di pregio, sia per le dimensioni e l’importanza della città che per la sua identità essenzialmente russa.
Procedendo da nord i russi, dopo aver preso i sobborghi settentrionali della città, hanno tentato di penetrarvi direttamente dagli assi principali, nel farlo si sono visti soldati russi appiedati o accompagnati solo da veicoli leggeri come i Lince italiani, nessun supporto da parte dell’artiglieria o di mezzi pesanti, carri armati in primis. Evidente l’intento russo inziale di usare “i guanti bianchi” verso una città che considerano in buona sostanza come propria.
D’altra parte, vacillamenti a Kharkov se ne sono visti, come i video del sindaco che invitava la popolazione a restare al sicuro e a non opporsi ai russi e anche alcuni sbandamenti inziali tra le truppe ucraine poste a difesa della città. A quanto pare è stato decisivo per organizzare la resistenza di Kiev il pronto intervento di elementi dei battaglioni nazionalisti inquadrati nella Guardia Nazionale (Azov in particolare) che, minacciando di fucilare traditori e disertori hanno ravvivato le difese ucraine, respingendo le penetrazioni russe nell’area urbana ed obbligando i russi a ripiegare le loro posizioni, tenute su di un semianello a nord della città, non riuscendo per altro i russi a costituire un vero anello di assedio restando le direttrici sud e ovest sempre aperte e in mano ucraina.
Clamorosi errori russi
Se sul fronte sud, pur fallito il tentativo di presa completa della Novorussiya, i risultati hanno portato qualche successo (presa di Kherson, presa parziale di Zaporyhza, accerchiamento di Mariupol, presa quasi totale di Lugansk), sul fronte nord l’insuccesso russo arriva ad essere quasi clamoroso. Innanzitutto, è da osservare che i russi, sempre nell’ottica delle errate considerazioni politiche e di intelligence inziali, sono avanzati mettendo da parte anche le nozioni più elementari di tattica militare procedendo come se fossero in parata su una piazza d’armi piuttosto che su di un teatro di combattimento.
I droni
Si sono così viste le colonne attorno a Kiev o sulle direttrici di Chernigov e Sumy di carri armati russi, compatti e non sparpagliati a distanza, facile prede per l’artiglieria nemica e per gli attacchi di droni, in particolare quelli di fornitura turca Bayraktar-2, la cui importanza è andata via via scemando man mano che i russi consolidavano la loro supremazia aerea, riorganizzando e stabilizzando il fronte con relativa posa di difese antiaeree, ma che nelle fasi iniziali dell’operazione, con i russi lanciati ovunque all’attacco in profondità senza particolari precauzioni, hanno causato perdite considerevoli.
A Sumy i russi sono riusciti anche entrare in città, praticamente indifesa, salvo doverla abbandonare non avendo uomini sufficienti neanche per organizzare una guarnigione nel municipio.
A Chernigov la città è stata posta in stato di semi-assedio ma non è stata presa, verso fine marzo dopo vari combattimenti i russi hanno preso l’adiacente cittadina di Slavtuych, da cui si sono però dovuti ritirare dopo il 25 marzo. Da Chernigov, che è così sempre rimasta in mano ucraina, non è mai stata aperta la strada verso Kiev, per minacciare la città da nord-est. A fatica è stata invece presa la cittadina di Konotop a nord di Sumy città nell’oblast di Sumy da cui i russi hanno tenuto la direttrice (coincidente con l’autostrada) verso Kiev-est.
Alle porte di Kiev
Procedendo velocemente su questa direttrice i russi hanno portato i loro mezzi alle porte di Kiev, tentando delle penetrazioni sulla parte della città a est del Dnieper, venendo però accolti dall’intensissimo fuoco ucraino, costringendo a ripiegare a est del bosco di Brovary, che cintura tutto il fianco orientale della città, da lì il problema principale dei russi è stato mantenere una linea di rifornimento lunga oltre 300khm in un territorio, quello degli oblast di Chernigov e Sumy, che non controllavano, con la presenza di diverse unità ucraine che, oltre ad aver bloccato la caduta di Chernigov, potevano così attaccare indisturbate le retrovie russe di Brovary.
Da sottolineare anche che molti mezzi russi, muovendosi su distanze così allungate, con retrovie poste costantemente sotto attacco, sono rimasti semplicemente senza carburante una volta arrivati in prossimità di Kiev, venendo così catturati dagli ucraini. Complessivamente si stima che i carri armati catturati dagli ucraini ai russi nel corso del conflitto siano oltre 500 (più di tutti i carri armati ottenuti dalla NATO nel corso del 2022) e per lo più ottenuti proprio in queste fasi inziali.
Il colpo di mano su Kiev
Resta da vedere l’offensiva avvenuta a ovest del Dnieper, sulla direttrice di Chernobyl, ovvero la puntata offensiva su Kiev. Questa è stata subito accompagnata dalla rapida infiltrazione in città di elementi Spetnaz ovvero delle forze speciali russe, con il presumibile obiettivo di eliminare Zelensky.
Anche qui interviene la ricostruzione offerta Oleg Tsarov, secondo il quale, l’intervento degli Spetnaz russi sarebbe fallito per la pronta reazione delle forze speciali ucraine che avrebbero difeso con successo i quartieri governativi. In quei momenti convulsi vi sarebbe stato anche uno scontro tra inglesi e americani e i referenti delle rispettive intelligence presenti a Kiev. Gli americani, infatti, avrebbero subito proposto a Zelensky la fuga, per trasferirlo a ovest a Leopoli, se non direttamente fuori dal paese, evento che, se verificatosi, avrebbe causato un possibile sbandamento generale dello stato delle forze armate ucraine.
Intransigenza inglese
Gli inglesi, invece, maggiormente preoccupati dal verificarsi di un tale scenario e confidenti nelle capacità delle forze speciali ucraine, da loro modellate e addestrate negli anni precedenti sulla falsariga delle loro SAS (Special Air Service), avrebbero imposto a Zelensky (che in tutto questo avrebbe avuto uno scarso margino decisionale autonomo) di restare a Kiev. L’intransigenza britannica avrebbe quindi pagato, fallendo il colpo di mano delle forze speciali, per i russi restava l’ipotesi di presa della città tramite assalto diretto della principale componente militare che intanto si stava muovendo dalla Bielorussia.
A supporto di questa tesi, la mattina del 24 febbraio i russi avevano anche attuato un sbarco in forze VDV – forze di paracadutisti, che in Russia costituiscono un’arma autonoma – eliotrasportate presso l’aereoporto di Gostomel.
Lo sbarco ha avuto inizialmente successo, nel senso che la velocità e la sorpresa dell’operazione ha permesso agli elicotteri russi di toccare terra con successo (la mattina del 24 febbraio un operatore della CNN pensando di intervistare soldati ucraini posti a difesa dell’aereoporto si ritrovò in diretta tra i paracadusti russi che predisponevano la prima linea di difesa). Tuttavia, gli ucraini sono subito passati alla controffensiva attaccando Gostomel con mezzi pesanti.
I paracadutisti, si dovettero così ritirare con forti perdite, dal momento che la colonna principale, con i mezzi corazzati necessari per respingere il contrattacco ucraino era ancora in ritardo e avanzava a fatica, sotto il fuoco senza risparmio delle due brigate di artiglieria ucraine poste a difesa della capitale, tra le cittadine di Bucha e Irpin,
Solo con l’arrivo dei rinforzi, nei primi giorni di marzo, i russi riuscivano a riconquistare, con un’aspra battaglia e grandi perdite Gostomel che, teoricamente, si sarebbe dovuta tenere solo grazie al primo colpo di mano della VDV.
Facili bersagli
Avvicinandosi a Kiev, solo le avanguardie più avanzate russe hanno tentato uno sfondamento, sugli assi principali di ingresso alla città da ovest e nord, venendo respinti dall’intenso fuoco ucraino che trovava nelle colonne russe che procedevano sulle tangenziali della capitale dei facili bersagli.
I russi si sono dovuti così fermare alla cittadina di Bucha, nei sobborghi nord-orientali di Kiev, attaccando da lì verso la cittadina adiacente a sud di Irpin, dove gli ucraini, per rallentarne l’avanzata hanno fatto saltare dighe e argini del fiume Irpin, affluente del Dnieper che separa Irpin città a sud da Bucha a nord.
La resistenza ucraina
L’azione, come in generale l’azione di resistenza ucraina e il sabotaggio di strade e ponti, ha causato grandi rallentamenti e impreviste difficoltà logistiche per i russi, da cui l’accumulo di una colonna mi mezzi militari di circa 45khm sulla direttrice che dalla Bielorussia porta a Kiev, rimasti intasati e impossibilitati a dispiegarsi rapidamente nell’area dei combattimenti. Dopo i falliti tentativi inziali di decapitare la testa dello stato ucraino con infiltrazione di forze speciali e di presa della città d’impeto, i russi, nel corso di marzo, hanno cercato di sviluppare almeno due tentativi di manovra avvolgente, tentando di porla in stato di assedio.
L’obiettivo in questo caso sarebbe stata la cittadina di Vasylkiv, posta a sud di Kiev a ovest del Dnieper, cercando di muovere da Irpin verso sud, e successivamente, a metà marzo, fallito anche questo tentativo cercando di attaccare la cittadina di Makariv, posta una quindicina di chilometri più a ovest di Kiev per cercare di allargare il perimetro dell’accerchiamento.
Tutti i tentativi non solo sono falliti ma sono risultati in pesanti perdite subite. La battaglia di Kiev si è così conclusa con l’annuncio del 25 marzo, per tramite di Dimitry Peskov, portavoce ufficiale di Putin, di un gesto di “buona volontà” da parte russa ovvero il ritiro da tutto il fronte nord, ovvero dagli oblast di Kiev, Chernigov e Sumy, delle forze russe.
Putin fa buon viso a cattivo gioco
Complessivamente si è stimato che tra il 24 febbraio e il 25 marzo i russi abbiano accumulato quasi il 30% delle perdite totali (soprattutto in termini di mezzi) avute fino ad oggi, senza l’abbandono del fronte nord è verosimile ipotizzare una totale distruzione delle forze russe impegnate su questi quadranti. Nonostante l’oggettiva sconfitta russa nella battaglia di Kiev, la reazione relativamente veloce e flessibile dei russi, che hanno deciso per il ripiegamento per tempo, prima che si potesse profilareuno scenario di annientamento, ha tuttavia evitato che la sconfitta di Kiev si risolvesse in una catastrofe totale.
Il ripiegamento da nord operato dai russi è potuto avvenire in buon ordine e senza ulteriori perdite, permettendogli di reimpiegarle nel Donbass, impendo agli ucraini di vanificare i successi ottenuti almeno sul quadrante sud.
Da parte ucraina, invece, nonostante le alte perdite subite (in particolare nelle unità di difesa territoriale, spesso impiegate per “tappare i buchi” e opporsi con pochi mezzi alle molteplici direttrici offensive russe), l’enorme dispendio ad esempio di munizioni (impiegate ovviamente nelle prime, frenetiche fasi di combattimento, senza risparmio, fino ad arrivare in un sostanziale esaurimento degli stock di munizionamento ex sovietico nel corso di fine primavera-inizio estate), hanno avuto successo nel salvare il proprio centro di gravità di Kiev e, nonostante a sud i russi abbiano ottenuto maggiori successi, anche gli obiettivi secondari di Odessa e Kharkov non sono stati acquisiti da parte russa.
Un’occasione di pace
Il ritiro russo del 25 marzo poteva, per altro, costituire un’occasione politica per gli ucraini per raggiungere una pace di compromesso da una posizione di forza. I colloqui tenuti in Bielorussia nel corso di marzo tra delegazioni dei due paesi però non hanno avuto esito. Forse perché imbaldanziti dal successo difensivo inziale, forse per le intromissioni occidentali (in particolari britanniche, come in seguito riferito apertamente dal premier israeliano Naftali Bennett, in quei giorni impegnato in un tentativo di mediazione), gli ucraini hanno via via manifestato nei colloqui sempre maggior intransigenza. Zelensky, che il 25 febbraio si era subito detto disponibile a negoziare e che pure aveva inizialmente dato deboli segnali di compromesso, circa ad esempio un possibile riconoscimento della Crimea russa e un possibile abbandono delle velleità ucraine di entrare nell’alleanza atlantica, fu così ricondotto sulla linea della ricostituzione dei confini ucraini del 1991 tramite una totale vittoria militare sul campo, ipotesi che esclude ipso facto una possibile soluzione diplomatica.
Da parte russa, nel corso di marzo, Putin ammoniva che, qualora Kiev non avesse soddisfatto le richieste russe, avrebbe potuto affrontare un futuro di scomparsa quale entità statuale. Ad oggi la guerra procede e con ogni probabilità procederà fino a quando uno di questi due scenari alternativi non sarà raggiunto.
Sui fatti di Bucha
Un’ultima parola va ai tristi fatti di Bucha dove il 4 aprile sono emerse fosse comuni con alcune centinaia di cadaveri. Da parte occidentale ovviamente si è gridato al massacro russo.
Tuttavia, restano molti elementi di incertezza, in primo luogo il ritardo di alcuni giorni per la denuncia del ritrovamento dei corpi, in secondo luogo per il fatto che molti di questi sembrassero cadaveri “freschi” e non in via avanzata di decomposizione come ci sarebbe potuti aspettare, ancora, in alcune foto si notano le vittime con una fascia bianca al braccio o razioni alimentari dell’esercito russo ai piedi. La fascia bianca è il segno che i russi chiedono ai civili ucraini di indossare in segno di non ostilità.
L’insieme di tali elementi induce a pensare che molti dei morti di Bucha fossero in realtà civili uccisi da parte ucraina per rappresaglia per ipotizzati casi di collaborazionismo col nemico. A onore del vero, va anche riportato che ci sono numerose testimonianze secondo le quali i russi avrebbero giustiziato preventivamente, nei territori occupati, membri dello SBU e della Guardia Nazionale, oltre che alcuni veterani ucraini della guerra in Donbass, ovvero tutti i possibili elementi di una resistenza antirussa.
La responsabilità dei morti di Bucha sarebbe, quindi, quantomeno condivisa tra le due parti ed è probabilmente questa consapevolezza ad aver fatto scomparire il nome di Bucha dai media e della propaganda occidentale (dove era onnipresente fino a qualche mese fa).