Cattolicesimo e democrazia – Nello scorso luglio si è tenuta a Trieste la 50° edizione della “Settimana sociale dei cattolici italiani”, evento le cui origini risalgono all’opera del sociologo ed economista cattolico Giuseppe Toniolo, beatificato dalla Chiesa, che indisse la prima settimana di studio nel 1907.
Toniolo propugnava un assetto della società ispirato ai principi della sussidiarietà e riteneva che la rappresentanza corporativa medioevale fosse ancora un modello valido anche per la società moderna. Tutta la sua azione intellettuale, sempre in sintonia con il Magistero dell’epoca, fu volta a dare organicità a una Dottrina Sociale alternativa al socialismo e al liberalismo.
Una ribalta Dem
In realtà le “nuove” Settimane sociali, promosse dalla Chiesa e dalla conferenza episcopale italiana, sono ben lontane da questa ispirazione di Giuseppe Toniolo.
L’evento si è colorato di bassa politica, volta faziosamente a sinistra. “Una ribalta dem” è stata la definizione del quotidiano LaVerità e l’ex senatore cattolico Riccardo Pedrizzi ha commentato come “siano stati coinvolti in questo ultimo evento di Trieste personaggi espressione prevalentemente del partito democratico. Quasi tutti i relatori sono stati, in pratica, di area dem.”
Di fronte alla profondissima crisi – spirituale, dottrinaria, pastorale e politica – della Chiesa, manifestatasi con il concilio ed esplosa con il postconcilio (ma già in incubazione da più di un secolo con il modernismo), fortemente aggravatasi con, e a causa di, Bergoglio, certo non stupisce questa “opzione preferenziale” dei vertici vaticani per la sinistra, se non per l’ultrasinistra; si veda, ad esempio, l’arruolamento e l’invito al Sinodo, in nome dell’immigrazionismo, di quel Luca Casarini, trasbordatore di clandestini, indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ex leader dei violenti no-global.
Oppure la dichiarata, entusiastica simpatia di Bergoglio per gli occupatori di terre brasiliani contigui a movimenti terroristici figli anche della sciagurata “teologia della liberazione”, da lui mai condannata.
Banalità e buonismo
Tutto ciò è ben noto. Ma volgiamo l’attenzione sul titolo dell’evento e sull’intervento del residente a Santa Marta. La settimana sociale si era proposta infatti di ragionare riguardo “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.
A sua volta l’intervento di Bergoglio, al netto delle solite banalità sulla “Chiesa sensibile alle trasformazioni della società”,la condanna delle “tentazioni populistiche” ed altre espressioni del più vieto e irritante repertorio luogocomunista bergogliesco e progressista (in apertura, cedendo al più becero femminismo, si era rivolto al pubblico con un obbligatorio e “inclusivo” “fratelli e sorelle” ignorando che in un buon italiano, grazie al maschile sovraesteso, “fratelli” include anche “sorelle”) aveva come fulcro un lamentoso birignao sul fatto che “nel mondo di oggi la democrazia non gode di buona salute” a cui è seguita una considerazione decisamente avventuristica da un punto di vista storico: “In Italia è maturato l’ordinamento democratico dopo la seconda guerra mondiale, grazie anche al contributo determinante dei cattolici”.
Tralasciamo volutamente il seguito rappresentato dal solito profluvio di espressioni e frasi fatte a cui costui ci ha abituato: “la cultura dello scarto”, “la partecipazione”, “le comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale” e l’immancabile, stucchevole, fastidiosissimo e falsificante refrain su “l’integrazione dei migranti”.
Da notare che anche recentemente Bergoglio si è lasciato andare ad una azzardatissima condanna di chi si batte contro l’invasione allogena, assai dubbia da un ponto di vista dottrinale, persino alla luce del pensiero cattolico “ufficiale” post-conciliare.
Una breve riflessione
Ignoriamo, dicevamo, queste facezie e tentiamo invece una breve riflessione meno rivolta al contingente: la relazione, storica e dottrinale, tra dottrina cattolica e democrazia. Circola infatti tra l’opinione pubblica dei semicolti ma anche degli acculturati affetti da postumi illuministi, storicisti e progressisti, l’idea che la Chiesa sia passata dall’oscurantismo del “Trono e Altare” e del Sillabo alla convinta adesione alla salvifica ideologia democratica grazie al pensiero dei cattolici, appunto, liberali e democratici degli ultimi 150 se non 200 anni e soprattutto alla “svolta” epocale del Concilio Vaticano II che ha posto le fondamenta “di una nuova Chiesa per nuovi tempi”. Insomma, una progressiva “maturazione” politica, parallela a quella dottrinale, che ha buttato a mare le Verità da sempre credute nella Tradizione, instaurando il credo storicistico dell’infinito progresso: la verità è ciò che crediamo qui e adesso ed è relativa e cangiante.
Tuttavia la realtà è ben diversa dal da questo semplicistico pensiero, ancorché dominante. Il rapporto tra dottrina cattolica e democrazia è ben più problematico di quanto non lo possano far pensare le banalizzanti esternazioni mainstream di Bergoglio. Questo rapporto non è privo di solidi punti in difesa della Verità (“la Verità non esce dalle urne”), riaffermati anche (stavamo per dire “persino”, ma ci tratteniamo), da pontefici come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Il malinteso democratico
Iniziamo col dire che la Chiesa, seguendo e facendo propria la politologia classica, tra gli altri, di un Platone, di un Aristotile o di un Polibio, identifica e ammette come legittime tre forme di governo: monarchia, aristocrazia e democrazia. Ma con un’avvertenza: la democrazia dei classici ha poco a che vedere con la democrazia modernamente intesa, quella nata con Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau. Quella classica non è la democrazia di massa e del dominio del suffragio universale. Tanto è vero che Aristotele la chiama politeìa (res publica, forma di governo) o politìa, un regime in cui i decisori sono i soli “cittadini onesti”.
Altri “classici” la definiscono timocrazia, o governo dei “cittadini onorevoli”. Una sorta di misto tra una democrazia limitata e un’aristocrazia allargata, certamente più vicina a una “repubblica degli ottimati” che alla democrazia di massa attuale. Significativo che talvolta il termine letterale “democrazia” venne riservato alla degenerazione di questo tipo di governo, così come la tirannia era la degenerazione della monarchia e l’oligarchia quella dell’aristocrazia.
Opzione Monarchica
Tuttavia la dottrina politica cattolica ha sempre manifestato una sorta di opzione preferenziale per la monarchia, a partire da San Tommaso che nella Summa contra Gentiles afferma: “Dobbiamo riconoscere che il miglior regime per la società umana è il governo monarchico”. E nella Summa Theologiae conferma: “Il miglior ordinamento della società è che sia governata dal re: poiché tale regime rappresenta più di tutti gli altri il governo divino, nel quale un solo Dio governa tutto il mondo”. Don Curzio Nitoglia, nel suo Il buono, il cattivo, e il pessimo governo, riporta una spiegazione di San Tommaso nel suo De Regimine Principum secondo cui è più utile che una moltitudine di uomini sia governata da uno solo, piuttosto che da molti. In altri passi, l’Aquinate accetta anche che la monarchia sia temperata da un regime misto, che non escluda l’aristocrazia e la democrazia.
Tale sistema salvaguarderebbe dalle degenerazioni causata dalla malizia dell’uomo, ferito dal peccato originale. La preferenza per la monarchia rimase per secoli una costante nella visione politica della Chiesa. Papa Pio VI (1717-1799) perseguitato, esiliato e poi imprigionato da Napoleone, che progettava uno scisma, definì la monarchia “la migliore forma di governo”. Lo conferma anche un affermato ed autorevole studioso cattolico, lo storico Massimo de Leonardis, dal 2005 al 2017 Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica: “il regime ideale alla luce della dottrina politica cattolica è la monarchia”.
La monarchia
Nei cattolici controrivoluzionari, quali Joseph de Maistre, Louis de Bonald e Juan Donoso Cortés, la scelta inequivocabile per la monarchia è, ovviamente, scontata. Per Joseph de Maistre la sacralità del sovrano era totale, al pari di un sacerdozio perenne. Per Louis de Bonald: “la garanzia di una sicura conduzione del potere è maggiormente legata a una forma di governo in cui il sovrano sia identificabile con una singola persona”. Juan Donoso Cortés, annota che: “al cattolicesimo che insegna che Dio esiste in persona, regna e governa le cose umane è connaturale la monarchia tradizionale”.
Tutta la pubblicistica cattolica “ortodossa” e intransigente, almeno fino verso la fine del XIX fu sospettosa, se non ostile, nei confronti della democrazia e, in generale, del regime rappresentativo. Il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793 – 1862), filosofo e studioso del diritto naturale riteneva che: “il sistema rappresentativo legittima la lotta fra le fazioni politiche ed esclude qualsiasi principio regolatore che non sia la prevalenza numerica”.
Verso la fine dell’800, nell’ambito delle correnti cattoliche moderniste e simpatizzanti del socialismo, iniziò a diffondersi la definizione di “democrazia cristiana”, dove l’aggettivo “cristiana” era un ipocrito espediente del sempre più arrogante modernismo per legittimare il sostantivo “democrazia”, rinnegando così secoli di dottrina politica cattolica.
Anche uno dei padri del cattolicesimo sociale italiano, Giuseppe Toniolo, intervenendo nel 1987 su Il concetto cristiano di democrazia, l’aveva definita come “ordinamento civile prescindendo da una sua determinazione politica”. Purtroppo il pontefice allora regnante, Leone XIII (papa dal 1878 al 1903) sembrò cadere in questa trappola modernista e in più di una occasione utilizzò questa definizione attribuendole un significato positivo. Anche nella vulgata storica corrente, Leone XIII è considerato il pontefice che “accettò” la democrazia, sia pure cristianamente corretta e intesa.
L’Enciclica Rerum Novarum
Fu un atto consapevole e quindi una voluta rottura con la tradizione politica cattolica o una semplice ingenuità? Non dimentichiamo, nel dare una risposta, che Leone XIII è il pontefice della Rerum Novarum, che pur manifestando una severa condanna del socialismo conteneva molte “aperture sociali” che generarono una certa retorica operaistica dei movimenti cattolici successivi, da quello di Romolo Murri, che voleva l’alleanza con i “rossi” per abolire le “stato borghese”, fino al Partito Popolare e alle leghe e ai sindacati bianchi, spesso alleati, sul territorio, con le leghe rosse delle sinistre e delle estreme sinistre.
L’enciclica Rerum Novarum generò non pochi mugugni tra i cattolici conservatori. Non dimentichiamo, ancora, che Leone XIII fu il papa del Ralliement della Chiesa nei confronti della Terza Repubblica francese, massonica e ferocemente anticlericale, che generò la rabbia e la costernazione dell’episcopato e dei cattolici francesi, vittime delle persecuzioni laiciste e, nella stragrande maggioranza, di ideali monarchico-legittimisti (salvo un’aggressiva minoranza modernista e filo-socialista, che poi diede origine al movimento del Sillon, condannato nel 1910 da san Pio X). Questa improvvida apertura nei confronti della repubblica francese, della modernità e del laicismo è stata ben descritta, nel suo svolgersi e nel suo esito tragicamente fallimentare (scioglimento degli ordini religiosi, esproprio dei beni, delle chiese e delle cattedrali, imposizione dell’educazione di Stato) dallo storico cattolico Roberto de Mattei nel suo testo Il ralliement di Leone XIII. Il fallimento di un progetto pastorale, edito da Le Lettere.
Una mostruosa opinione
Per tornare al tema del rapporto tra questo pontefice e la democrazia, in realtà non vi fu mai una sua chiara legittimazione di questo sistema di governo. Anzi, nella sua prima enciclica Quod apostolici muneris, del 1878, definì la democrazia come una “mostruosa opinione” e “un’empietà nuova”. Nella successiva enciclica Diuturnum illud del 1881, il papa rifiutò la democrazia moderna nata dalla Rivoluzione Francese, come precisa il cattolico Guido Vignelli su La Bussola mensile: “Leone XIII rifiutò questa democrazia in quanto empia, erronea e rivoluzionaria e condannò il democratismo come “eresia politica” che oscilla tra anarchia liberale e tirannia socialista”. Di più: Leone XIII individuò assai giustamente nella Riforma protestante la nefasta origine di questa “fallace opinione dell’arbitrio della moltitudine”:“da quella eresia ebbero origine nel secolo passato la falsa filosofia, quel diritto che chiamano nuovo, la sovranità popolare”.
Leone XIII sapeva benissimo come la grande maggioranza dei cattolici fosse giustamente ostile a questa nuova definizione: “la formula “democrazia cristiana” suona male a molti fedeli. Essi la temono per più ragioni: vi scorgono qualcosa di ambiguo e pericoloso, credono ch’essa possa nascondere il fine politico di consegnare il potere al popolo […] e di sottrarsi alle legittime autorità nel mondo sia civile che ecclesiastico”. Tuttavia esortò i cattolici a usare questa nuova formula e ciò aprì le porte alla vulgata di un papa “democratico cristiano”. In realtà nell’enciclica Graves de communi re, del 1901, il pontefice aveva ben chiarito il significato dell’espressione usata: “Nel senso che vogliamo darle, la parola “democrazia” ne esclude ogni portata politica e non deve significare altro che una benefica azione cristiana in favore del popolo”. Ma la confusione e l’ambiguità alimentate dallo stesso pontefice rimasero.
La battaglia di Pio X contro il modernismo
San Pio X, intransigente antimodernista, fu fermissimo nella difesa dei valori politico-sociali tradizionali. Sciolse la ormai trentennale Opera dei Congressi, caduta nelle mani dei modernisti di Romolo Murri e quando questi riunì i democratici cristiani nella Lega democratica nazionale, la sua condanna nel 1906 fu inesorabile.
Nel 1907 Murri fu sospeso a divinis e nel 1909 scomunicato. Come già accennato, nel 1910 Pio X pronunciò la condanna dei modernisti francesi del Sillon di Marc Sangnier con una lettera, Notre charge apostolique, rimasta un caposaldo della dottrina sociale e politica cattolica.
Scrive l’intellettuale e giurista cattolico Giovanni Tortelli, in un ottimo testo titolato Democrazia e cattolicesimo, edito da Cantagalli: “In questa lettera il Pontefice dichiara esplicitamente la sua condanna per le nuove idee democratiche e per ogni conflitto sociale che alteri il rispetto per la Chiesa”.
Il pensiero politico di Pio X
In un famoso brano della lettera, Pio X sintetizza mirabilmente il suo pensiero politico: “La civiltà non è più da inventare né la città nuova da costruire sulle nuvole. Essa è esistita. Essa esiste; è la civiltà cristiana, è la civiltà cattolica. Si tratta unicamente di instaurarla e di restaurarla senza sosta sui suoi fondamenti naturali e divini contro gli attacchi rinascenti della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà: Omnia instaurare in Christo”. Questo sarà poi il motto del suo pontificato.
Un’altra vulgata postconciliare e democraticistica narra di una simpatia di Pio XII per la democrazia. Seguiamo ancora il testo già citato di Giovanni Tortelli: “Pio XII non pensava affatto a una democrazia formale come elemento necessario al buon governo, dal momento che egli riteneva la forma democratica solo una delle possibili forme di governo. […] E’ stato un errore successivo quello di aver attribuito a papa Pacelli un suo consenso alla democrazia”. Nel radiomessaggio natalizio del 1944 Pio XII chiariva le condizioni sotto le quali la democrazia sarebbe stata ammissibile. Inoltre ribadiva ancora la classica distinzione tra uguaglianza degli uomini davanti a Dio e disuguaglianze sociali, legittime in quanto “derivanti dalla natura stessa delle cose”.
Il pasticcio del Concilio Vaticano II
Giungiamo quindi al Concilio Vaticano II che, nella credenza comune, creata ed alimentata dal saldo possesso da parte modernista-progressista degli strumenti di comunicazione e di interpretazione dei fatti, avrebbe rappresentato una sorta di “svolta epocale” nella Chiesa soprattutto per l’incondizionata e entusiastica accettazione della democrazia. In realtà in nessun documento ufficiale del Concilio ci fu una trattazione sulle forme di governo.
Certo, da parte di molti commentatori cattolici critici, come Romano Amerio, Brunero Gherardini, Paolo Pasqualucci, Roberto de Mattei e molti altri, non si è esitato a parlare di un evento di rottura col passato, che consentì una vittoria, o stabilì le premesse di una successiva vittoria, delle tesi di quel modernismo che, come ha osservato monsignor Gherardini: “san Pio X aveva, sì, autorevolmente proscritto, ma non era riuscito ad estirpare”.
E tra questi momenti di rottura con la Tradizione di sempre, il più “politico” fu l’affermazione, nella dichiarazione conciliare Dignitatis humanae,del “diritto” alla libertà religiosa che contraddiceva, in un Concilio autodichiaratosi “non dogmatico”, precedenti documenti dottrinali, questi sì indubbiamente dogmatici, come il Quanta cura – Sillabo di Pio IX, in cui il principio della “libertà religiosa” era severamente ed esplicitamente condannato.
Un plateale, storicistico disconoscimento del “principio di non contraddizione” da sempre rispettato nella Chiesa. Per inciso, nel Sillabo si condannava anche il principio secondo cui: “L’autorità non è altro che la somma del numero”
Lo “spirito del Concilio”
Poi si aggiunsero le falsificazioni dovute all’invenzione del cosiddetto “spirito del Concilio”, che consentì ogni sorta di stravolgimento dei testi letterali e l’imposizione di interpretazioni “forzate” che poco o nulla avevano a che fare con i testi del Vaticano II, che pure, come già rilevato, non furono privi di ambiguità se non di errori dottrinali. Tra queste l’idea di una “conversione democratica” della Chiesa.
Pian piano, si affermò l’idea, mai peraltro formalizzata in modo strutturato e formale da un punto di vista dottrinario, di una “opzione preferenziale” per la democrazia. Alcune dichiarazioni di Giovanni Paolo II parrebbero andare in questa direzione. Leggiamo nella Centesimus annus del 1991: “La Chiesa apprezza il sistema della democrazia in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche”.
Ma, al contempo, il Papa polacco aveva ben chiaro il grave rischio del relativismo implicito in questo regime e, sempre nella Centesimus annus, precisa che: “il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo” e quindi: “una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo”. Ancora, nel 2005, nel suo libro Memoria e identità Giovanni Paolo II così scrive: “L’etica sociale cattolica appoggia, in linea di principio, la soluzione democratica […] Si è tuttavia lontani – è bene precisarlo – da canonizzare questo sistema”. E ancora, riferendosi alla democrazia: “il suo carattere morale non è automatico e dipende dalla moralità dei fini che persegue”. Insomma, non si può mettere ai voti la Verità.
Affidiamoci ancora al testo di Giovanni Tortelli: “Solo una lettura superficiale, parziale o approssimativa del magistero di Giovanni Paolo II può portare a un fraintendimento sulla sua cauta posizione davanti alla democrazia, la quale ricalca niente più che quella sana e tradizionale diffidenza della Chiesa”.
La dittatura del relativismo di Benedetto XVI
Di Benedetto XVI sono ben noti i suoi caveat nei confronti della democrazia e il rischio che questa comporta nell’insorgere di quella che ha definito, con felicissima intuizione, “dittatura del relativismo”. La sua è una difesa ripetuta, in più occasioni e in numerosi documenti, di una legge naturale, anteriore e superiore al diritto positivo (da chiunque stabilito), intuita già dalla filosofia classica, citata da san Paolo, ripresa da sant’Agostino, da san Tommaso e da tutta la filosofia cristiana successiva.
Diritto naturale a cui deve subordinarsi anche la cosiddetta, presunta “sovranità popolare”. Scrive Ratzinger: “Il principio di maggioranza lascia sempre aperta la questione che porta a chiederci se non esista qualcosa che non può mai diventare diritto, qualcosa che rimane sempre in sé ingiustizia, o negazione del diritto e, viceversa, se non esista anche quanto, per sua essenza, è diritto immutabile, precedente a ogni decisione di maggioranza e che da esso deve essere rispettato.”
I principi non negoziabili
Da qui la fermissima difesa di papa Ratzinger di quelli che definì, con un’altra, altrettanto felice definizione: “principi non negoziabili”. Tale difesa è ancora più significativa in quanto pronunciata in un discorso al Presidente della Repubblica italiana il 30 maggio 2005: “…il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fono alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme. Tali valori non sono negoziabili.”
È la riaffermazione cristallina di un principio immodificabile da sempre incardinato nella dottrina cristiana. Di fronte alla Verità, non c’è democrazia, o altra forma di reggimento politico, che tenga. Scriveva nel suo testo Democrazia e ordine morale il teologo tomista padre domenicano Raimondo Spiazzi: “…è chiaro che la maggioranza non può porre, eseguire, far osservare leggi che siano in contrasto con il diritto naturale e col diritto delle genti, che costituiscono la fonte e la ragione giustificatrice del diritto positivo”.
La deriva bergogliana
Cosa è rimasto oggi, tra le rovine della neo-chiesa bergogliana, di questo principio immodificabile?
Molto poco, e quel poco è costantemente sotto attacco dei prelati modernisti che occupano, ormai, quasi tutte le posizioni di potere. Ce ne fornisce un esempio eclatante monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia della Vita (che peraltro è inquinata da numerosi membri abortisti nominati da Bergoglio) e “consigliere spirituale” di quella congrega ultra-sinistrorsa, terzomondista e immigrazionista che è la Comunità di Sant’Egidio (il che spiega molte cose).
Costui, nel presentare un documento sul fine vita, ha chiaramente aperto a pratiche eutanasiche, con la solita tecnica retorica vaticansecondista: affermare il principio, no alla morte procurata, ma poi negarlo nella prassi. Ovvia, ma significativa, l’esultanza delle forze radicali e laiciste impregnate di cultura della morte.
Ma ciò che è interessante, ai fini del discorso che stiamo facendo, sono le giustificazioni di monsignor Paglia riguardo a questa ennesima resa della Chiesa (rectius: di chi oggi la sta indegnamente occupando) alle ideologie necrofile e pervertite che dominano e opprimono (è la “dittatura del relativismo” paventata da Benedetto XVI) un Occidente depravato, ormai un vero “mondo al contrario”.
Il tradimento della Verità
Secondo Monsignor Paglia questo ennesimo tradimento della Verità e della Dottrina di sempre viene compiuto in nome di “posizioni nuove e più aperte al dialogo”, tanto più nel “contesto pluralista e democratico delle società in cui il dibattito si svolge”. Inoltre auspica che su certi temi “si raggiunga il più alto consenso comune possibile” e che “possano ammettersi mediazioni sul piano giuridico in una società pluralista e democratica”.
È il trionfo del relativismo assoluto, la subordinazione della Verità e del Bene al “consenso più alto”, l’apologia della “mediazione” tra Bene e Male, tra la sacralità della vita e la morte procurata, cioè, come l’aborto, un assassinio. E’ la negazione, plateale e arrogante, dei “principi non negoziabili” di papa Ratzinger: il diritto alla vita, non negoziabile, deve essere invece, secondo Paglia, sottoposto al vaglio del dibattito, del consenso, della mediazione. Perché siamo in “un contesto pluralista e democratico”. E’ la negazione più terribile, anticristica e infernale della tradizionale dottrina morale e politica cristiana.
La folla dinanzi a Pilato, richiesta di scegliere “democraticamente” tra Gesù e Barabba, scelse Barabba. Lo stesso sta facendo la neo-chiesa di Bergoglio, in nome della nuova divinità, la democrazia.
Antonio de Felip
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