In margine alla proposta del ministro Calderoli – 2diPicche.news è, nel suo intimo, straitaliana e, quindi, memore e gelosa della storia della nazione, non può non essere anche strapaesana. L’Italia dei mille comuni, delle tante capitali, dei numerosi dialetti, dei cento climi, degl’infiniti paesaggi. Che è l’unità di un mosaico.
Strapaese
Lo Strapaese, il movimento che si affermò nei primi due decenni del XX° secolo col suo anticosmopolitismo e la diffidenza per ogni tipo di esotismo, non senza trascurare un sano sentimento nazionalista, esaltava la forza e il valore di un’Italia profonda, paesana, contadina – oggi l’avremmo chiamata il paese reale – contro la decadenza e l’appiattimento metropolitano. Se Mino Maccari, Curzio Malaparte e Leo Longanesi ne furono i più importanti animatori, quel movimento trovò fra i suoi ispiratori Giovanni Papini, genio purtroppo dimenticato della nostra letteratura.
L’Italia postrisorgimentale – e prima di essa anche il regno di Savoia e i regni napoleonici italiani – individuò la provincia come dimensione delle esigenze e dell’amministrazione locale e il fascismo, anti-regionalista, la mantenne e fu lo stesso capo del governo, nel 1923, in occasione della relazione alla riforma della Legge comunale e provinciale, a difenderne il ruolo, quale insostituibile organo di decentramento istituzionale, di collegamento fra i Comuni e di tutela dei loro interessi.
L’anomalia delle regioni
La previsione costituzionale della Regione, poi compiutamente realizzata nel 1970, un vero e proprio regalo dell’Italia repubblicana al partito comunista che poté così amministrare territori ricchi come l’Emilia-Romagna e la Toscana, con tutti i vantaggi in termini politici ed economici, portò ad una lenta erosione delle competenze, ormai di natura residuale rispetto a quelle degli altri enti, e della stessa ragion d’essere della Provincia, oggi ridotta a organismo di secondo livello.
Riscoprire le province
Eppure, la taglia provinciale appartiene alla nostra tradizione ben più di quella regionale. La maggior parte delle regioni non rispecchia una realtà storica, radicatasi invece nello sviluppo dei Comuni, laddove il territorio provinciale, naturale proiezione della città e del suo orizzonte, rappresenta una dimensione sociale e organizzativa immediatamente percepibile da chiunque.
E si è poi finito per delegare alle Regioni compiti in precedenza assegnati allo Stato. Basti pensare alla legislazione concorrente nei rapporti internazionali e con l’Unione Europea che consente loro, nelle materie assegnate, accordi con Stati ed intese con enti territoriali extra-nazionali. O al settore sanitario, dove si moltiplicano le occasioni di conflitto di competenza fra Stato ed ente regionale.
La proposta di Calderoli
Le amministrazioni regionali, grazie alla loro accresciute attribuzioni, sono diventate colossi economici e politici capaci di influenzare le scelte di governo. Un fattore in più nel progressivo svuotamento dell’esecutivo, già pesantemente condizionato da fattori esterni nell’esercizio del suo reale potere decisionale. La proposta del ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli, di ricreare l’ente provinciale, è una notizia da tenere in considerazione. Esprime la constatazione della mancanza di un soggetto intermedio fra il colosso regionale e tantissimi piccoli comuni lasciati a sé stessi.
Coniugare modernità e tradizione
Potrà essere il primo, piccolo, passo per la riconquista di quei territori in fase di spopolamento, privi di prospettive economiche e per questo abbandonati? Non si tratta, evidentemente, di chiudere gli occhi di fronte a un mondo globalizzato, di negarne gli effetti inevitabili, di proporre improbabili autarchie locali.
Si tratta, piuttosto, oltre alla necessità d’invertire il tragico trend di desertificazione industriale, che nulla sembra capace di frenare, di ricominciare a recuperare, pezzo dopo pezzo, quei territori che tanto possono dare in termini di economia locale, produttività e ricucitura di una socialità perduta.
La riconquista della sovranità può ricominciare da qui, da una banale misura istituzionale che rappresenta, però, una piccola ma significativa marcia indietro.