Prendiamo due fatti recenti. Il primo: il giornalista Alessandro Da Rold su LaVerità documenta dove sono stati diretti gli stanziamenti del Ministero dei Beni Culturali “per le attività e iniziative di promozione cinematografica e audiovisiva del 2024”,citando come fonte il sito dello stesso ministero con una pubblicazione del 10 febbraio.
Vediamo chi sono alcuni dei beneficati dediti alla decima arte (Mussolini diceva: “il cinema è l’arma più forte”). Spiccano 80.000 euri graziosamente donati all’“Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico”, realtà che ha ereditato “il patrimonio filmico del Partito Comunista Italiano e della Unitelefilm – società di produzione cinematografica legata al PCI”. Poi altri 20.000 euri vanno a all’”Archivio nazionale cinematografico della Resistenza” fondato a Torino nel 1966 da Ferruccio Parri e sostenuto dall’immarcescibile ANPI. Ma la trippa non è solo per i gatti veterocomunisti; anche i cultori dei “nuovi diritti sessuali” hanno avuto le loro brave mancette. Ad esempio 15.000 euri per il “MiX Festival Internazionale di Cinema Lgbtq+ e cultura queer di Milano” e altri 15.000 per il “Sicilia queer international new visions film fest 2024”. Beneficato di 10.000 euri anche l’associazione Arcigay il Cassero di Bologna.
Secondo fatto: il Consiglio dei Ministri del 7 marzo ha approvato un disegno di legge che introduce nel nostro ordinamento il reato di “femminicidio”. Ora, chi scrive ritiene, ma non è il solo e la compagnia è numerosa e illustre, che il concetto e il termine stesso “femminicidio” siano un obbrobrio giuridico, sociologico, civile, politico e financo lessicale. Non dimentichiamo che il termine, falsificante, ideologico e linguisticamente terroristico, fu inventato da un giornalista di Repubblica qualche lustro fa. E si fa obbligata la citazione di Nicolás Gómez Dávila: “Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo”.
Alcuni osservatori hanno sottolineato le criticità della norma: Tommaso Scandroglio sugli aspetti probatori, sull’indeterminatezza della fattispecie, sulla indeterminatezza di alcuni termini (esempio “odio”), Luca Ricolfi segnala l’enorme potere discrezionale che questa legge dà ai giudici, ma soprattutto in molti puntano il dito sulla negazione del principio base (sancito dalla “loro” Costituzione) della legge uguale per tutti. Commenta Marcello Veneziani: “finisce l’universalità della legge, ci sono omicidi più gravi di altri, per genere e statuto.”
Su questo stesso sito Paolo Ornaghi (https://www.2dipicche.news/femminicidio-la-legge-che-non-risolvera-un-bel-niente/), e non è il solo, si chiede: “la vita di un uomo vale meno della vita di una donna?” Il Ministro delle Pari Opportunità e della Famiglia (ma che c’azzeccano le cosiddette “pari opportunità” con la famiglia?) Roccella dichiara che “introdurre il reato di femminicidio è soprattutto un tentativo di produrre un mutamento culturale”. Si tira la zappa sui piedi. Al di là dello stucchevole e abusato uso del concetto di “cambiamento culturale”, Tommaso Scandroglio commenta: “Insomma, sanzioniamo con il massimo della pena chi uccide una donna per educare le masse. Ciò è errato perché configurerebbe un ingiusto uso dello strumento penale a scopo pedagogico”. Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione, ha apertamente avanzato l’ipotesi di incostituzionalità di questa legge, in evidente e palese contrasto con l’art. 3 dell’adorata Costituzione (“Tutti sono eguali davanti alla legge”).
Ma poi, i cosiddetti femminicidi sono veramente un’emergenza in Italia tale da giustificare un vulnus gravissimo al diritto come quello dell’introduzione di questo reato? Ancora il sociologo Luca Ricolfi: “Qui stiamo forse dimenticando che il vero problema in Italia, lo dico in termini statistici, non sono i femminicidi, che sono molto infrequenti rispetto ad altri paesi, ma sono tutte le altre forme di violenza sulle donne”. Già, ma queste violenze sono commesse in misura preponderante da immigrati, notoriamente intoccabili.
Quanti sono stati i femminicidi nel 2024 in Italia? Ricorriamo ancora all’articolo di Paolo Ornaghi: “I numeri sono discordanti, si passa dai 47 femminicidi per Skytg24 agli 83 per Repubblica, 90 per Rainews; 97 per non una di meno, 99 per il giornale Avvenire sino ad arrivare ai 109 femminicidi per Fanpage.” La variabilità delle cifre denuncia l’evanescenza, concettuale e quindi giuridica, del “femminicidio”. Come allora non concordare con l’ex senatore Simone Pillon, cattolico integrale, autore, tra l’altro, di un bel testo che tutti dovrebbero leggere: Manuale di resistenza al pensiero unico, edito da Giubilei Regnani, che così commenta:
“Siamo tutti contro la violenza ma il femminicidio è un errore politico e giuridico clamoroso. […] Vogliamo mettere in sicurezza le donne italiane? Espulsioni, remigrazione e blocco delle frontiere per chi considera per cultura o per religione la donna come un essere inferiore. Ma basta con questa storia del patriarcato […] Sogno un centro-destra che si emendi dall’inferiorità culturale verso la sinistra femminista e radicale, sappia avanzare proposte politiche alternative alla visione marxista e riesca a nominare nei posti chiave persone con idee di centro-destra. Vedo però che siamo ancora molto molto lontani.”
Il bravo Pillon centra mirabilmente il punto: l’incapacità o la non volontà del centro-destra, ma qui ci riferiamo in particolare alla soi-disant destra di governo, di combattere efficacemente l’opprimente, perversa egemonia culturale della sinistra, estensivamente intesa. In decenni di azione metodica e pianificata, “loro” hanno occupato tutto l’occupabile: la scuola, l’università, le case editrici, i premi letterari, la stampa, i media televisivi, la produzione cinematografica e le relative mostre, i teatri, i circuiti artistici. Tutto, insomma.
E poi “loro” dispongono di una rete di associazioni fiancheggiatrici: i sindacati, l’ANPI, le ONG, Cittadinanza attiva, l’Arci e associate come l’Arcigay, Legambiente e le altre associazioni green, come Greenpeace o il WWF. Da aggiungere anche le associazioni consumatori e tutta una galassia di sodalizi destinati a soddisfare ogni interesse. Tutti gli interstizi della società sono occupati. Sul territorio vi è un pullulare di micro-associazioni ispirate alla sinistra, spesso in spazi graziosamente concessi dai comuni retti dal PD e che la destra, se vince, in nome del quieto vivere, lascia dove sono. Perché non prova a fondare associazioni alternative? Persino le parrocchie, in epoca bergogliona ma anche da prima, sono diventate fonti di infezione modernista, buonista, progressista, immigrazionista, antirazzista. Sono ormai succursali delle sezioni del PD.
Prendiamo la RAI. Avete mai visto un libro di destra recensito in un programma come Quante storie su Rai3? O la rassegna stampa di RaiNews citare non occasionalmente titoli o articoli di fondo di quotidiani di destra, vera o presunta? O programmi di storia non impestati dall’antifascismo più bieco e becero?
Vogliamo parlare di fiction, strumento principe di manipolazione delle idee e del comune sentire, perché le vediamo con filtri ideologici abbassati (“sono solo fiction”)? Concordiamo con Marcello Veneziani: “si offrono pappette pseudo-culturali come le fiction storiche e biopic, sempre allineate ai quattro dogmi ricorrenti – femminismo, omofilia, nerofilia e antifascismo – o programmi divulgativi con narrazioni sempre in linea con il mainstream.” A questo punto, meglio le fiction turche, rozze, melodrammatiche, caricate come le prime telenovelas sudamericane, ma almeno immuni da apologie omosessualiste e genderiste e dalla più subdola e offensiva propaganda a favore della società multirazziale, che nelle produzioni occidentali ci viene imposta come “normale” e “inevitabile”.
Cosa impedisce a questa destra (o presunta tale), che governa centralmente e in molte Regioni e Comuni e pare godere del consenso della maggioranza dell’opinione pubblica, di attuare una decisa, radicale politica di riconquista delle “casematte” della cultura, come le definiva Gramsci? Cosa le impedisce di costruire una contro-egemonia, ad esempio in RAI? Perché non sostenere iniziative già esistenti (e crearne di nuove) quali pubblicazioni, radio, case editrici, mostre librarie, convegni diffusi e frequenti?
Perché non fornire visibilità ai numerosi e bravi “intellettuali d’area” invece di ricorrere, per la poca convegnistica che viene organizzata, a intellettuali ostili o comunque estranei (“vedete come siamo bravi, invitiamo anche i nostri avversari”)? Al suo insediamento, il primo Ministro della Cultura del governo Meloni, Gennaro Sangiuliano, ex Fronte della Gioventù, ex FUAN, ex consigliere circoscrizionale del MSI, dichiarò: “non vogliamo sostituire un’egemonia culturale con un’altra”.
Male, molto male: allora perché ti sei seduto lì? L’attuale Ministro, Alessandro Giuli, ex Fronte della Gioventù, ex Meridiano Zero, ex evoliano o forse no, quello dei fondi al cinema, alla sua prima uscita come ministro, appunto alla Mostra del cinema a Venezia, ha trionfalmente proclamato: “io sono un liberale”. In altre occasioni ha preso le distanze dalle posizioni antiabortiste del suo ex direttore (al Foglio) Ferrara, ha attaccato Vannacci, ha invitato FdI a “prosciugare le pozzanghere del fascismo”. Se pensiamo che personaggi di questo genere possano attuare una politica contro-egemonica, ci illudiamo. Al massimo possono organizzare una pur ottima (ma isolata) mostra su Tolkien. Troppo poco.
C’è da chiedersi quali siano i motivi di questa strutturale incapacità della destra di agire concretamente a favore di una “cultura non conforme”, portatrice di una visione del mondo opposta a quella oggi vincente e dominante. E’, tra l’altro, un’incapacità storica: anche la vicenda del MSI dei Michelini e degli Almirante evidenzia questa indifferenza alla cultura, con la sola eccezione del “mondo piccolo” rautiano e altre pregevoli eccezioni, come quelle di Adriano Romualdi o Marzio Tremaglia e di altri isolati esponenti.
Se guardiamo all’oggi, alla destra (ripetiamo: o presunta tale) di FdI, le cause di questa “incapacitante” incomprensione dell’importanza della cultura sono molteplici e diverse: si ignora (nel senso che non si sa o si sottovaluta) l’impatto della cultura egemone sulle mentalità collettive, sulla formazione di idee diffuse e dominanti, quindi sull’affermazione dei propri ideali e valori e sulla presa politica di lungo periodo sulla società. Questa lezione è stata invece elaborata e ben appresa, anche grazie a Gramsci, ma non solo, dalla sinistra marxista: la costruzione della figura dell’“intellettuale organico” lo dimostra.
Poi è doloroso, ma doveroso, segnalare una profonda, generalizzata (rare le eccezioni) inadeguatezza culturale (oseremmo dire anche intellettuale) della destra (ancora una volta: o presunta tale). Un dato purtroppo congenito, aggravato dal fatto che la scelta antifascista o, se vogliamo essere benevoli, afascista, ha privato questo mondo di tutto un retroterra culturale di grande valore che innervava la destra pre-Fiuggi: dai grandi autori controrivoluzionari, dai pur plurali e tra loro diversi intellettuali del Ventennio, dai pensatori della Rivoluzione Conservatrice e da quelli del Romanticismo Fascista francese (amatissimi della destra giovanile), dagli Evola e dai Guénon ma anche dai Plinio Correa de Oliveira e potremmo proseguire a lungo. Quali riferimenti culturali rimangono oggi a quel mondo: Giuseppe Prezzolini? Indro Montanelli? Roger Scruton? Francesco Giubilei? In un ipotetico banchetto librario di una altrettanto ipotetica Festa del Secolo d’Italia, quali testi troveremmo? E, soprattutto, ne troveremmo?
Come poi ignorare un evidente, frustrante, incomprensibile “complesso d’inferiorità” della destra che ben si accompagna con le pretese di “superiorità morale” della sinistra? Sembra quasi che la destra si vergogni di esserci, di presentarsi come destra vera, sembra che cerchi di mimetizzarsi, di farsi accettare, di piacere a tutti i costi: “noi non siamo quello che pensate, noi siamo buoni, democratici e vogliamo bene alla Costituzione come alla mamma”.
Viltà, ignoranza, “piacioneria”, rinuncia ai propri ideali in nome del potere? Ma pensano forse di convincere gli avversari? Mentre veniva approvata la sciagurata legge sul “femminicidio” come reato (una miserabile resa ai disvalori degli avversari), l’8 marzo le femministe in piazza urlavano: “cuori accesi, fasci appesi” e “siamo tutte antifasciste”. E bruciavano le raffigurazioni della Meloni. Dagli intellettuali di regime che si arricchiscono con falsificanti biografie del Duce, dai giornalisti ben pagati del mainstream, dagli improbabili “rettori” di università continua il profluvio dell’odio antifascista.
Siamo ancora a l’écrasez l’infâme di Voltaire, al “ogni anticomunista è un cane” di J.P. Sartre. Sono sempre quelli che al Consiglio Comunale di Milano applaudirono alla notizia della morte di Sergio Ramelli. Il loro odio è inestinguibile, ha una profondità metafisica ma invertita e quindi demoniaca. La destra (sempre: o presunta tale) pensa veramente che sia una buona politica, e non parliamo dell’etica e dei valori, della nostra storia e della nostra civiltà, quella di volersi far accettare e accreditare a tutti i costi?
E come giudicare la rinuncia a combattere l’egemonia culturale liberal-progressista o addirittura, a facilitarla come abbiamo visto con gli esempi forniti (ma potremmo citarne decine di altri)? Non basta qualche nomina in un museo, in un dipartimento di un ministero, in una mostra: così non si cambia lo stato profondo della cultura egemone. Con tutto il mio rispetto, e anche la mia simpatia, per il personaggio, a cosa è servita la nomina di Pietrangelo Buttafuoco a presidente della Fondazione La Biennale di Venezia? Vedremo delle produzioni artistiche “di destra”? Alla Mostra cinematografica verranno ammesse anche opere non stucchevolmente politically correct, ammesso che ve ne siano in natura?
La RAI non è priva di direttori di programmi, capi redazione, persino manager apicali di destra. Avete visto, negli orientamenti della tv pagata anche da noi, una correzione di rotta rispetto al solito antifascismo, resistenzialismo, alla narrazione, ad esempio, “anticolonialista” o ultra-femminista?
Ecco perché siamo d’accordo con Marco Tarchi (non avviene sempre…) quando ci mette in guardia contro “l’errata convinzione che la proclamata azione contro l’egemonica possa e debba essere condotta dall’alto, mentre dovrebbe avvenire il contrario: scuole di formazione che non siano passerelle di dirigenti ma luoghi di confronto con le idee altrui e di studio, convegni e tavole rotonde volti non a celebrarsi ma ad interrogarsi, iniziative di selezione e promozione di talenti intellettuali, borse di studio per laureandi o dottorandi senza marchio o simboli di partito…Insomma fare decenni dopo quello che ha saputo fare con successo il Pci a suo tempo.”
Antonio de Felip
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