Il Giappone e quel sorriso perduto – “Accorrete, accorrete! Vengano signore e signori! Se la tua fiducia in me riporrai, un nuovo sorriso da me riotterrai!”.
Quando Itavino sentì quel signore urlare a squarciagola, tra un invito ad accorrere e una rima “fiduciosa”, si trovava nel bel mezzo di una via gremita di persone che camminavano chiuse ai lati tra due pareti di edifici alti come sequoie, tra insegne pubblicitarie sfavillanti migliaia di luci colorate. Era frenesia pura. Normalità apparente. E la vita scorreva come aveva sempre fatto. Niente di più, niente di meno.
All’inizio, in effetti, gli sembrava così tutto tranquillamente normale, in ciò che guardava nessuna stortura né stranezza: frotte di persone che si recavano a lavoro, altre che si godevano una passeggiata, chi spulciando vetrine con gli occhi e chi ammirando l’altezza imperiosa di quei giganti di vetro e acciaio. Che cosa poteva mai esserci di così strano?
Sì, forse erano quelle luci, tutti quegli schermi pieni zeppi di video pubblicitari che propinavano e propinavano e che peccavano di gusto estetico. Ma Itavino non riusciva a non pensare, e quella profonda sensazione che qualcosa non quadrasse la percepiva, lievemente ma la percepiva; sentiva che quella normalità era apparente, che all’appello mancasse qualcosa.
Quelle persone erano estranee, non le percepiva come suoi simili, mancava qualcosa, sì, qualcosa. E quell’assenza che sentiva ma non vedeva c’era e al tempo stesso non c’era. Non la trovava, e si sforzava con grande spreco di sé stesso, eppure quel dettaglio mancante non emergeva.
Ora basta. Era stufo e decise di fermare un passante afferrandolo per un braccio quasi strattonandolo e gli chiese: “Ehi, tu! Dimmi e spiegami!”.
Questo non reagì se non arrestandosi, lo fissò negli occhi, si guardò la manica sgualcita e subito Itavino ritrasse la mano. L’estraneo aprì la bocca e parlò: “Che cosa vuoi uomo europeo? Perché mi hai fermato con così tanta violenza? Che cosa ti turba?»”
Itavino rimase stupito dalla pacatezza di quell’uomo e abbassò lo sguardo sentendosi in colpa: “Scusami… non volevo essere violento, è stata una reazione istintiva… È che non capisco come mai mi sembriate tutti normali. Eppure…lo sai anche tu che… insomma, siete diversi… Aiutami a trovare e a capire, per favore”.
Quello non fece nessun cenno di bocca, nemmeno un segno con gli occhi e disse: “Guardami. Guardaci bene. Cosa vedi nel mio volto che non c’è? Sforzati”. Itavino si sforzava ma niente.
“Uomo europeo, noi non sorridiamo. Il nostro popolo ha perso forse uno dei beni più preziosi: il sorriso. Non siamo più capaci di sorridere. Non siamo più in grado di esprimere quella bellezza che riempie di gioia l’essere umano. Abbiamo disimparato. Queste mascherine che indossiamo sono in parte la causa della nostra incapacità ma anche lo strumento per nascondere i nostri volti: maschere vuote e asettiche”.
Itavino rimase fermo, immobile, non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’uomo che non esprimeva nulla se non indifferenza. E nella sua testa cominciò a collegare quanto aveva appena scoperto con quell’uomo che urlava in strada promettendo un nuovo sorriso a chiunque avrebbe riposto la fiducia in lui. Ecco. Sì. Era il sorriso il grande assente. Migliaia di persone rinchiuse dietro una pezza sintetica che non esprimevano più gioia.
Era il risultato di uno strumento di sicurezza che avrebbe dovuto garantire loro la vita. Certo, ma a che prezzo? Era la conseguenza di quanto è stato e di quant’è tutt’ora.
Sopra i loro volti uno stigma prepandemico pesantemente accentuato nei numeri durante la pandemia.
Una società che è andata avanti e che ha creduto di esserne uscita. Ma in verità il suo cammino è quello di una persona male in arnese. È quello di uno zoppo che si trascina l’arto malsano, intaccato, che si ostina ad autoconvincersi che la sua andatura è naturale, perfetta ed equilibrata, ma che in realtà mostra i segni del disagio passo dopo passo, quando di fronte all’orma delineata e corretta di un piede accosta l’impronta indefinita e trascinata dell’altro. Una società che deve fari i conti con un disagio e con l’incapacità di sorridere.
Una società che deve e vede attrezzarsi persone pronte a studiare i muscoli facciali e ad insegnare ad altre persone a tornare a sorridere, a sollevare gli angoli della bocca istituendo dei veri corsi di espressività facciale. Ore di allenamento per imparare a mettere in mostra i propri denti e mostrare gli occhi rilassati.
Ed è qui che emerge l’ulteriore problematica. Mostrare. Come se sorridere fosse diventata un’arte. La gente vuole essere vista sorridente e basta. E se invece fosse necessario ritrovare anche il buon umore? È possibile tornare ad essere felici solamente sorridendo? E se assieme al sorriso fosse andata perduta anche quella facoltà cognitiva di saper riconoscere ciò che è bello, ciò che è felice? Il problema non è soltanto esteriore, il sorriso può essere una facciata. Il problema è anche interiore, non sono sufficienti sorrisi ideali.
È una forma di umano che avanza e che umano non è. Disumano.
Il Giappone ha perso il sorriso, e sta tentando di ritrovarlo.
Riccardo Giovannetti