I Mercanti della neve, la Gioeubia, i giorni della Merla, la Candelora – Fede, Folclore e Tradizioni popolari
Chi sono i mercanti della neve? La leggenda è molto antica e la tradizione vuole che si attribuiscano le abbondanti nevicate ad alcuni Santi, che compaiono sul calendario dopo la metà di Gennaio, a cavallo dei giorni della Merla. Erano solitamente i più freddi dell’anno e portavano copiose nevicate, per questo venivano abbinati ai Santi Mercanti della Neve. Questi giorni erano considerati dai contadini come un almanacco; in base al tempo che si verificava nei tre giorni si ipotizzava il tempo per il resto dell’anno. I “Mercanti della Neve” devono questo nome al fatto che, i giorni in cui si ricordano, sarebbero sì quelli più nevosi dell’anno, ma anche quelli che aprono le porte ad uno spiraglio di primavera.
Cultura contadina
Quando il clima e la natura non erano ancora manipolati e stravolti dal progresso e dall’inquinamento, i contadini, privi delle previsioni meteo che oggi ci assillano su tutti i mezzi di comunicazione, avevano il loro almanacco legato al calendario ma anche ai mutamenti climatici stagionali del loro territorio. Gennaio è da sempre considerato uno dei mesi più nevosi e rigidi. La cultura contadina osservava con grande attenzione il clima del primo mese dell’anno per capire se l’annata sarebbe stata, o no, fruttuosa. Proprio da questa esperienza si era accertato che in alcuni momenti dell’anno il clima era più rigido e le nevicate più probabili. Da qui nascevano i detti popolari che annunciavano l’arrivo di questi cambiamenti.
In Lombardia, ma anche in tante altre regioni italiane, nel mese di gennaio sono tante le feste popolari dedicate ai santi chiamati “Mercanti della neve” a causa delle abbondanti nevicate che, di norma, si verificano durante questo mese.
Il dialetto milanese- lombardo recita:
“San Mául, un fréc dal diául, sant’Antóni, un fréc da demóni; san Sebastiän, un fréc da cän”
San Mauro, un freddo del diavolo; sant’Antonio, un freddo da demonio; san Sebastiano, un freddo da cani.
Per tutte e tre le ricorrenze è tradizione accendere grandi falò beneauguranti che oltre ad allontanare il male possono assicurare un ricco raccolto. Mai come in queste feste i riti cristiani rivestono di leggende e storie le vecchie tradizioni pagane dei falò propiziatori.
Il Folclore è il patrimonio culturale del nostro Paese, l’insieme delle tradizioni popolari di una regione, di un paese, di un gruppo etnico, in tutte le manifestazioni culturali che ne sono espressione, cioè usi, costumi, leggende, credenze e pratiche religiose o magiche, racconti, proverbi e quanto altro è tramandato per tradizione orale e/o scritta.
Chi sono i tre santi?
15 GENNAIO
San Mauro (Roma, 512 circa – Angers, 588 circa) è stato abate benedettino e principale discepolo di San Benedetto da Norcia assieme a san Placido. Venerato dalla Chiesa Cattolica è considerato patrono di giardinieri, carbonai, calderai, raffreddati, zoppi, ed è invocato contro i reumatismi e contro la gotta. Viene celebrato con la vendita sulle bancarelle dei “filsòn”, castagne secche raccolte in lunghe collane.
17 GENNAIO
Sant’ Antonio Abate (Sant’ Antonio dalla barba bianca, se non piove la neve non manca) chiamato sant’Antonio il Grande, detto anche sant’Antonio d’Egitto, sant’Antonio del Fuoco, sant’Antonio del Deserto e sant’Antonio l’Anacoreta (Qumans, 12 gennaio 251 – deserto della Tebaide, 17 gennaio 356), è stato un abate ed eremita egiziano.
È considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati; a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio. La sua vita è stata tramandata dal suo discepolo Atanasio di Alessandria. È uno dei quattro Padri della Chiesa d’Oriente che portano il titolo di “Grande” insieme allo stesso Atanasio, a Basilio ed a Fozio di Costantinopoli. È ricordato nel Calendario dei santi della Chiesa cattolica il 17 gennaio, mentre la Chiesa ortodossa copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde, nel suo calendario, al 22 del mese di Tobi.
Madonna tra i santi Antonio Abate e Giorgio, Pisanello, 1445 circa. Tempera su tavola, National Gallery di Londra.
Falò, mercatini e benedizione degli animali
Questo grande patrono del mondo contadino è ancora oggi festeggiato con un gran numero di manifestazioni, riti e consuetudini antiche: falò, mercatini e benedizione degli animali. I falò che si accendono nella sera della vigilia sono ricchi di significati propiziatori e rimandano alla leggenda che narra come sant’Antonio sia sceso all’inferno per riscaldarsi e rubare al diavolo un tizzone ardente da donare agli uomini: da qui la sua elezione a protettore contro i pericoli degli incendi.
In Italia esiste una vera e propria venerazione per Sant’Antonio Abate (da non confondere con Antonio patrono di Padova): basta passare in rassegna le decine di eventi organizzati in suo onore il 17 gennaio, data della sua morte, dalla Lombardia fino alla Sicilia. Eppure leggendo qualche cenno della sua biografia si scopre che il santo non ha alcun legame con il nostro Paese: Antonio fu un eremita egiziano, vissuto nel IV secolo dopo Cristo, cui si deve l’inizio del cosiddetto “monachesimo cristiano”: bastò questo “primato” per diffondere il culto in tutta Europa, cui si aggiunsero, nel tempo, molti tratti popolari.
Fin da epoca medievale, Sant’Antonio viene infatti invocato in Occidente come patrono dei macellai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici; questo, forse, perché dal maiale gli Antoniani (i seguaci di Antonio) ricavavano il grasso per preparare emollienti da spalmare sulle piaghe. Antonio, dice la tradizione, era anche un taumaturgo capace di guarire le malattie più tremende.
E poi, c’è la credenza popolare che vuole che il Santo aiuti a trovare le cose perdute. Al Nord si dice “Sant’Antoni da la barba bianca fam truà quel ca ma manca” e al Sud dove viene spesso chiamato Sant’Antuono, per distinguerlo da Antonio da Padova,
”Sant’Antonio di velluto, fammi ritrovare quello che ho perduto”.
20 GENNAIO
San Sebastiano (San Sebastiän, ‘n’úrä in mäan; A san Sebastiano, un’ora in mano.) annuncia la primavera. San Sebastiano, giovane martire milanese, famoso per la sua bellezza efebica, venne raffigurato da molti insigni pittori legato e trafitto da frecce.
San Sebastiano nasce a Narbona, in Francia, nel 256. A Milano viene educato e istruito ai principi della fede cristiana. Si sposta poi a Roma dove entra nella cerchia militare in scorta agli imperatori. Diviene alto ufficiale dell’esercito imperiale poi comandante della prestigiosa prima corte pretoria. Qui, forte dei suoi principi di fede, in contrasto, però, con quelli “professionali”, assiste i carcerati cristiani, si occupa della sepoltura dei martiri, diffonde il cristianesimo fra funzionari e militari di corte. Ben presto l’imperatore Diocleziano viene a conoscenza del suo operato di diffusione degli insegnamenti cristiani e, visto il suo profondo odio per i fedeli di Cristo, lo condanna a morte. San Sebastiano muore a Roma, a seguito di due condanne di morte, il 20 gennaio del 288.
San Sebastiano, olio su tavola di quercia di Pietro Perugino, databile al 1495 circa e conservato nel Museo del Louvre a Parigi.
Santa Agnese, 21 gennaio
Segue San Sebastiano nel calendario – Sänta Gnèsä, la risärtä la cûr in da la scésä; “Par sant’Agnes, ga cur la lüserta su la sces!”
A sant’Agnese la lucertola corre nella siepe, giorno in cui si vuole che le lucertole escano dalle siepi. Con questo efficace proverbio i nostri antenati notavano che ad un mese dal solstizio d’inverno, quando la Chiesa celebra Sant’Agnese martire, nelle ore diurne le lucertole già si aggiravano sulle siepi per scaldarsi ai raggi del sole, a segnalare che la stagione ormai lentamente progredisce verso condizioni più luminose e via via meno rigide.
La Santa viene venerata a Roma nella Basilica di S.Agnese fuori le mura. Celeberrima l’altra chiesa a Lei dedicata, da tutti nota, quella di Sant’Agnese in Agone (Ecclesia Sanctæ Agnetis in agone) che si trova a Roma in Piazza Navona eretta nel luogo del martirio.
LA GIOEÜBIA
Tipica delle zone del Milanese e di alcune zone della Liguria, è la Gioeubia. Nel mezzo dell’inverno e precisamente l’ultimo giovedì di gennaio, si brucia la “vecchia” simbolo della stagione secca quasi per implorare l’arrivo della stagione verde, che significava la possibilità di sopravvivere. Era la festa delle donne, un ricordo forse della società Matriarcale. In questo giorno, obbligatorio è il “risotto con la luganiga”, l’uno e l’altro simboli di fertilità.
Le origini del nome Gioeübia
“L’ultimo giovedì di gennaio è il giorno, anzi la notte della Gioeübia. Incerta è l’origine del nome per la mancanza di fonti scritte ma si pensa derivi dal culto della divinità di Giunone (da cui il nome Jovian). Altri ancora lo ricollegano a Giove, giovedì: il nome deriverebbe dal dio latino ‘Jupiter-Jovis’, da cui l’aggettivo Giovia e quindi Giöbia (o Gioeübia, a seconda della forma dialettale usata in ogni singolo paese) per indicare le feste contadine di inizio anno per propiziare le forze della natura che, secondo la credenza popolare, condizionano l’andamento dei raccolti. Il periodo della festa coincide con le “Ferie Sementine”.
La leggenda
La Gioeübia è una strega, spesso magra, con le gambe molto lunghe e le calze rosse. Vive nei boschi e grazie alle sue lunghe gambe, non mette mai piede a terra, ma si sposta di albero in albero: così osserva tutti quelli che entrano nel bosco e li fa spaventare, soprattutto i bambini. L’ultimo giovedì di gennaio va alla ricerca di qualche bambino da mangiare. Ma un giorno una mamma le tese una trappola: preparò una gran pentola piena di risotto giallo allo zafferano, con la luganiga (salsiccia), e lo mise sulla finestra. Il profumo era delizioso, da far venire l’acquolina in bocca. La Gioeübia corse verso la pentola e cominciò a mangiare il risotto. Il risotto era tanto, ma così tanto buono che la Gioeübia non si accorse che stava per arrivare il sole, che uccide le streghe. Il bambino fu così salvo e la strega sconfitta.
La tradizione
“La sera dell’ultimo giovedì di gennaio vengono costruite con stracci e paglia delle Gioeübie con sembianze femminili. Nella tradizione, i fantocci indossano mutandoni di pizzo, delle calze rosse, un grembiule ed hanno il capo coperto da un fazzoletto. Le Gioeübie venivano portate in grandi cortili o sulle piazze per essere bruciate: una volta che il fantoccio era arso dalle fiamme, il rogo continuava ad accompagnare la festa popolare, alimentato da fascine di rubinia e fusti secchi di granoturco, cioè di ‘maragasc’. La Gioeübia era un’occasione per cenare in comunità o in famiglia ‘cunt’ ul luganaghen’, il salamino cotto nella brace e nella cenere del camino”.
I GIORNI DELLA MERLA
I giorni più freddi sono però considerati quelli della Mèrla (Il 29, 30, e 31 gennaio) quando però la luce del giorno si allunga sempre più, perché secondo la tradizione popolare: “Da Nadal el pè de n gal, da Pascheta n oreta, da San Bastian a man a man”. Significato: a Natale la luce del giorno aumenta un pochino (il piede di un gallo), all’Epifania (Pasca-Pifania) un’oretta, a San Bastian (20 gennaio) man mano sempre di più.
Da dove deriva questa credenza, molto radicata sul territorio lombardo?
Come spesso accade in questi casi, ci sono diverse spiegazioni sulle origini di questa leggenda. Le storie sui “dì della merla” hanno sempre come protagonista questo diffuso volatile, dal piumaggio scuro. Una delle versioni più note della leggenda racconta di una povera merla candida che, in fin di vita per il freddo e la mancanza di cibo dovuta al gelo, una mattina si rifugiò dentro un comignolo per trovare riparo e calduccio. Secondo quanto narrato la merla vi stette tre giorni interi, ritemprandosi e riuscendo a sopravvivere, diversamente dai suoi compagni, che furono uccisi dal gelo. All’uscita dell’animale dal suo provvidenziale rifugio, la merla aveva però cambiato colore, diventando tutta nera. E così, trattandosi dell’unica merla rimasta, da quel momento in poi tutti gli esemplari sono nati neri come il carbone.
Esiste un altra versione della leggenda
In questo caso la merla è oggetto delle intemperanze di “Gennaio”, sempre in attesa di vederla uscire dal nido in cerca di cibo, per gettare sulla terra freddo e gelo. Stanca delle continue persecuzioni, la merla un anno decise di fare provviste sufficienti, e si rinchiuse nella sua tana, al riparo, per tutto il mese, che allora aveva solo ventotto giorni. L’ultimo giorno del mese, la merla, pensando di aver ingannato il cattivo “Gennaio”, uscì dal nascondiglio e si mise a cantare per farsi beffe di lui. “Gennaio” non mandò giù l’affronto e decise di chiedere in prestito tre giorni a “Febbraio” in modo da scatenare con bufere di neve, vento, gelo, pioggia. La merla si rifugiò alla chetichella in un camino e lì restò al riparo per tre giorni. Quando la merla uscì, era sì salva, ma il suo bel piumaggio si era ingrigito a causa della fuliggine del camino, e così essa rimase per sempre con le piume scure.
Non si può certamente essere esaustivi di tutti i detti e credenze popolari in poche righe.
Di certo è che effettivamente le più grosse nevicate e/o quantitativi massimi di neve al suolo, si verificano generalmente proprio a gennaio-febbraio, mesi dei Santi Mercanti della Neve. Tipicamente nella memoria collettiva si tramandano i ricordi degli inverni gelidi del 1916, 1929, 1951, 1956, 1985, ma anche i recenti 2009, 2012 e 2014.
Un inverno quello del 2012 che portò la Laguna di Venezia a ghiacciarsi come altre poche volte nella storia nel 1486, 1548, 1788, 1794,1864 eventi che furono ripresi nelle opere d’arte e nelle tradizioni pittoriche popolari.
CANDELORA, DAI RITI PAGANI A CRISTO LUCE DEL MONDO
“Se c’è sole a Candelora, dell’inverno semo fòra, ma se piove o tira vento, de l’inverno semo dentro”. Questa è la notissima filastrocca della Candelora così come declinata nelle regioni del Nord. La processione della Candelora, che si celebra il 2 febbraio, quaranta giorni dopo il Natale, sarebbe un contrapposto a quella dei “Lupercalia” dei Romani e si lega alla festa della Presentazione di Gesù Bambino al tempio durante il quale viene definito dal vecchio Simeone “Luce per illuminare le genti”. È la festa liturgica della Presentazione al Tempio di Gesù, raccontata dal vangelo di Luca (2,22-40), e popolarmente detta “candelora” perché in questo giorno si benedicono le
Presentazione al Tempio, Giovanni Bellini, 1460, Fondazione Querini Stampalia, Venezia
candele, simbolo di Cristo luce del mondo come viene chiamato il Bambino Gesù
dal vecchio profeta Simeone: «I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». La stessa frase, peraltro, è ripetuta nella preghiera di compieta che chiude la giornata. La festa delle luci ebbe origine in Oriente con il nome di “Ipapante”, cioé “Incontro”. Nel secolo VI si estese anche all’Occidente: da Roma, dove aveva carattere più penitenziale, alla Gallia con la solenne benedizione e processione delle candele che ha dato il nome alla festa: “candelora”, appunto. Questa festa chiude le celebrazioni natalizie e, con la profezia di Simeone alla Vergine Maria, («anche a te una spada trafiggerà l’anima») apre il cammino verso la Pasqua.
Cosa riserveranno quest’anno i Mercanti?
Alessandro Prof. Dott. Tamborini *
*Plenipotenziario per le politiche di tutela e promozione del patrimonio storico-artistico-demo-etno-antropologico. Teologo, storico, docente e studioso di Scienze Religiose, Storia e Simbolismo dell’Arte Antica e Medievale.