Genova 30 giugno 1960: inizia la marcia del P.C.I. verso il governo – A Genova il 30 giugno ha lo stesso sapore del 25 aprile.
Da quel 25 aprile 1945 sono trascorsi 78 anni, dal 30 giugno 1960 gli anni sono “solo” 63, ma la liturgia dell’antifascismo resta ancora immutata.
Prefigurazione degli anni di piombo
Se il 25 aprile ricorda la fine di un conflitto mondiale e di una guerra civile, il 30 giugno ci riporta ad una rivolta scatenata in tempo di pace e nel contesto di un regime democratico in cui convivevano missini e comunisti, democristiani, liberali e socialisti.
Si può dire che sia stato un primo assaggio di quanto avremmo poi visto negli anni ‘70 del secolo scorso quando qualcuno immaginò possibile la rivoluzione attraverso la lotta armata e qualcun altro cercò la stabilizzazione del sistema utilizzando la teoria degli opposti estremismi.
Quel 30 giugno
Al governo vi era un monocolore D.C. guidato da Fernando Tambroni, insediatosi il 25 marzo, con l’appoggio esterno del M.S.I. guidato da Arturo Michelini.
Il M.S.I del 1960 esprimeva una linea politica moderata e conservatrice, come emersa dal congresso di Milano del 1956, tanto che l’ala “anti-sistema” guidata da Pino Rauti era uscita dal partito per dar vita al Centro Studi Ordine Nuovo.
Il congresso nazionale dell’MSI
Il M.S.I., partito legittimamente rappresentato in parlamento, decise di indire a Genova il proprio sesto congresso nazionale (dal 2 al 4 luglio 1960) che avrebbe dovuto sancire la politica dell’inserimento voluta da Michelini.
Questo fece insorgere il P.C.I. che, tramite Camera del Lavoro, C.G.I.L, A.N.P.I. e portuali indisse manifestazioni di protesta con l’intento di far annullare la celebrazione del congresso del M.S.I. come poi puntualmente avvenne.
Un ex dirigente comunista, Luciano Barca, riporta come il P.C.I, apparentemente non direttamente coinvolto rispetto all’impegno più diretto di A.N.P.I e C.G.I.L. ebbe, in realtà, un ruolo essenziale nella regia delle manifestazioni.
Esistono, al riguardo, rapporti riservati e testimonianze di prima mano, che evidenziano come gli scontri del 30 giugno 1960 furono preordinati a tavolino.
Fonti “fiduciarie” parlano di gruppi di ex partigiani fatti affluire dalle province di Alessandria, Savona, Imperia, La Spezia, Parma, Cuneo, Torino, Milano, “per poter fronteggiare le forze di polizia”.
Tutto preparato a tavolino
Nel Rapporto della Prefettura di Genova al ministro dell’Interno, “riservatissima personale” del 3 luglio 1960 (citata da Adalberto Baldoni, in La Destra in Italia – 1945-1969, Editoriale Pantheon, Roma 1999), il Prefetto Pianese scrive sui manifestanti del 30 giugno: “La loro tattica è quella di venire a contatto diretto e a scontri frontali con le forze di polizia. Da lontano, da appostamenti, da cornicioni, le assalgono con grosse pietre, mattoni, bottiglie, spranghe di ferro, etc. cercando di frazionarle, facendosi inseguire, per poi assalire isolatamente piccoli reparti e mezzi in difficoltà, o attirandoli in luoghi predisposti per l’imboscata”
I rapporti dei Carabinieri segnalano squadre di 5-10 uomini, ciascuna con un capo e perfettamente coordinate, in grado di rifornirsi di sassi, bottiglie molotov, spranghe e dotate anche di un servizio medico organizzato per evitare che i manifestanti andassero in ospedale e venissero identificati (Luciano Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia illustrata», n. 337, dicembre 1985).
Scontri durissimi
Alla fine, si conteranno 162 feriti tra gli agenti e circa 40 feriti tra i manifestanti. Violenti scontri continuarono nei giorni successivi in varie città italiane. Il 7 luglio a Reggio Emilia, nel corso degli scontri con la Polizia, furono uccisi cinque operai iscritti al PCI. A Palermo si contarono due morti e 36 feriti da arma da fuoco, un morto a Catania. L’8 luglio, a Firenze, una manifestazione di protesta relativa ai recenti avvenimenti di Reggio Emilia venne caricata dalla polizia.
Un cambio di paradigma
La “rivolta” contro il congresso del M.S.I. che sosteneva il Governo Tambroni fu l’innesco da cui scaturì il passaggio dalla “pregiudiziale anticomunista”, che aveva caratterizzato la politica italiana dal 1948 ai primi anni Sessanta, a quella “antifascista”, che dominerà il ventennio seguente.
Sul numero del 4 luglio 1960 del quindicinale della sezione centrale di stampa e propaganda del P.C.I. “Note di propaganda” si legge: “In questo modo l’attacco antifascista diventa anche un terreno su cui ricercare e sviluppare le convergenze e le intese tra le forze di sinistra e democratiche per l’affermazione di nuove maggioranze nei comuni e nelle province nelle prossime elezioni amministrative”.
D’altronde che la retorica dell’antifascismo fosse sempre stata funzionale alle mire di potere del PCI è una storia che era iniziata con la “Resistenza”.
Il 19 luglio Tambroni si dimise e nacque il governo Fanfani III formato esclusivamente da esponenti del proprio partito, la DC, con l’appoggio esterno del PSDI, PLI, PRI e con l’astensione del PSI e dei monarchici. Nasceva il “centro-sinistra”.
Il PCI dovette, comunque, attendere fino al 1978 per entrare ufficialmente nella maggioranza del governo Andreotti di “solidarietà nazionale”. Il 16 marzo, ad un’ora dall’avvio della seduta di presentazione del governo alla camera, il presidente della DC Aldo Moro veniva rapito da un commando delle BR…. Ma questa è un’altra storia.
Antonio Gatti