Falcone e le stonature in suo ricordo – Il 23 maggio è l’anniversario della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, sua moglie e quattro agenti della scorta.
La figura del magistrato palermitano, inscindibilmente connessa a quella di Paolo Borsellino, giganteggia in quella parte della Storia d’Italia che racconta la lotta alla Mafia. Sacrosanto celebrarlo e ricordare il suo sacrificio. Mattarella ha citato le sue parole durante la commemorazione: “La mafia può essere sconfitta ed è destinata a finire.”
Gli sciacalli del ricordo
Un auspicio e una speranza che non si possono che condividere. Tuttavia, proprio per rispetto di chi, come Falcone, Borsellino e tanti altri, ha pagato con la vita il contrasto alla malavita, andrebbero evitate certe forzature. Il goffo tentativo di alterare la verità storica per beceri interessi di bottega, alimentando una narrazione ideologizzata dei fatti, va respinto.
I cori di Bella Ciao durante il corteo, sono stati completamente fuori luogo. Da anni ANPI, ARCI, CGIL e soprattutto l’associazione Libera di don Ciotti, cercano di mettere il proprio cappello sulla lotta alla mafia, quasi come se questa fosse una prerogativa esclusiva dell’area antifascista. Ma fu proprio Falcone, uomo vicino alla sinistra – mentre Borsellino ebbe trascorsi nel FUAN, cosa che fa comodo dimenticare – ma intellettualmente onesto, a riconoscere che: “L’unico tentativo serio di lotta alla mafia fu quello del prefetto Mori durante il Fascismo, mentre dopo, lo Stato ha sminuito, sottovalutato o semplicemente colluso… Sfidiamo gli antifascisti a negare che la mafia ritornò trionfante in Sicilia ed in Italia al seguito degli “Alleati” e degli antifascisti, in ricompensa dell’aiuto concreto che essa fornì per lo sbarco e la conquista dell’isola” – G.Falcone, M.Padovani: “Cose di Cosa Nostra, capitolo 6 “potere e poteri”-.
La lente distorta dell’antifascismo
Ecco quindi che una celebrazione che potrebbe e dovrebbe veramente unire tutte le persone oneste, senza distinzioni, si trasforma in un terreno di divisione in nome di quell’odio politico, figlio della guerra civile permanente.
La lotta alla Mafia deve essere patrimonio di tutti, altrimenti diventa un’altra cosa ed è destinata a fallire. Soprattutto non può essere utilizzata come un paravento per mascherare altre lotte, tra fazioni, che con il contrasto alla criminalità hanno poco a che vedere.
Ridateci il prefetto Mori
Ciotti e gli altri, almeno il 23 maggio, mettano da parte il loro antifascismo e studino l’opera di Cesare Mori.
Non era fascista, Mori, anzi, era di scuola liberale e, prima della Marcia su Roma, da Prefetto di Bologna, fu particolarmente duro contro lo squadrismo. In seguito, il governo Mussolini, riconoscendo le capacità e la determinazione dell’integerrimo servitore dello Stato, gli conferì pieni poteri per la guerra alle cosche, senza guardare alla sua formazione politica.
La mafia, grazie a Mori, subì dei colpi durissimi, al punto che molti suoi esponenti si videro costretti a fuggire negli Stati Uniti.
Una lezione che l’Italia di oggi farebbe bene a studiare.
Raffaele Amato
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