Essere sposi: risposta alla Murgia – Dopo il suo ultimo libro God Save the Queer dove Michele Murgia riporta il catechismo secondo il transfemminismo ecco che la scrittrice ci delizia con un’altra perla fluida.
L’ autrice, in questo caso, scomoda addirittura le sue radici sarde, precisamente la sua lingua, al fine di dichiarare guerra per l’ennesima volta alla figura non solo maschile, da buona femminista, o presunta tale, ma anche a quella femminile.
Infatti, a detta della Murgia, “la parola più queer che esista in sardo è ‘sa sposa/su sposu'”.
Improbabili collegamenti
Una parola in chiave perfettamente antifascista soprattutto contro quello che, a suo avviso, è “un governo fascista” e di conseguenza con un linguaggio non inclusivo per quanto concerne il contesto familiare a differenza, invece, della parola ‘sa sposa/su sposu che, a detta della scrittrice, appartiene alla categoria del linguaggio alternativo “che permette inclusione” in quanto “limita dinamiche di possesso, moltiplica le energie amorose e le fa fluire”.
Gli sposi secondo la Murgia
Ma perché per la Murgia ‘sa sposa/su sposu’, che letteralmente significa ‘fidanzata/fidanzato’, è considerata la parola più queer?
La risposta è data sempre dalla scrittrice sarda, la quale spiega che nell’uso comune è una parola piegata di continuo a rapporti che col fidanzamento non hanno nulla a che fare, così come col genere o con l’età.
I figli sono chiamati così dal padre e dalla madre ma anche i figli, a loro volta, chiamano i genitori ricorrendo a questa parola.
Stesso ragionamento per i nonni che ricorrono a questo termine per chiamare tutto il nipotame. Ma “sa sposa/su sposu” va oltre il contesto familiare, infatti, è usato anche tra gli amici che si apostrofano con questa parola anche scherzosamente in forma tronca: ‘sa spò/ su spò'”.
Per la Murgia “La queerness familiare è una cosa che esiste e raccontarla è una necessità sempre più politica, con un governo fascista che per le famiglie non riconosce altro modello che il suo”.
L’etimo della parola
Nella lingua italiana sposo e sposa sono davvero da includere tra le parole più queer?
A dare risposta è l’etimologia del termine sposo, dal latino sponsus, participio passato del verbo spondére che significa promettere solennemente, garantire.
Da ciò il significato originario del termine sposa/o significa e cioè “definitivamente promessa/o” o “definitivamente legata/o” (al marito o alla moglie).
Stando così le cose, il termine sposo, secondo la lingua italiana, rappresenta una categoria specifica, di conseguenza, non inclusiva e per questo motivo da considerare fascista secondo la forma mentis fluida della scrittrice.
Per di più la Murgia dimentica che il diritto di famiglia trova le sue radici nella cultura romana e non sarda.
Un diritto le cui disposizioni, come quelle riportate nel Codice civile, disciplinano l’istituto del matrimonio con tanto di distinguo tra sposa e sposo.
Negheranno che il sole sorge a Est?
Un diritto che, secondo l’intellighenzia transfemminista, si dovrebbe considerare fascista, oppure è semplicemente un diritto in funzione della realtà che ci circonda come quella della famiglia frutto dell’unione di un uomo e di una donna.
Senza queste due specifiche figure non esisterebbe neppure il termine “u sposu /a sposa”, visto che i figli, i nipoti e gli amici dei figli e nipoti che usano questa “parola queer” sono il frutto dell’unione tra le due parole non inclusive per antonomasia.