Elezioni USA 2024: in rotta verso novembre – Con le convention, sia quella repubblicana che quella democratica, ormai fissate, la prima attesa per il 17 luglio a Milwaukee, Wisconsin, la seconda per il 19 agosto a Chicago, Illinois, sono state superate le formalità delle primarie, che hanno riconfermato gli stessi sfidanti del 2020: Joe Biden e Donald Trump.
La ripresentazione di un duello al vertice tra gli stessi candidati di una precedente elezione presidenziale è un fatto decisamente raro per i parametri della politica americana. Per ritrovare dei precedenti bisogna ricorrere alle elezioni del 1956 tra Eisenhower e Stevenson o a quelle del 1900 tra McKinley e Bryan.
Sicuramente l’incapacità delle parti di saper rigenerare la propria rappresentanza politica, vista anche l’età senile dei contendenti, 82 anni da compiersi per Biden e 78 per Trump, marcano un sintomo di forte sclerotizzazione della politica americana.
Da una parte vi è un presidente uscente in palese e conclamato stato di declino cognitivo e incipiente demenza senile, candidato dell’establishment, verosimilmente pilotato dal proprio entourage, che, evidentemente, nonostante i deficit psicofisici del presidente e le possibili ricadute negative in termini elettorali (oltre il 70% degli americani, quindi anche una buona quota di elettori democratici, giudica Biden troppo anziano per continuare ad esercitare la funzione presidenziale) ha deciso di non disfarsi del “vecchio arnese”, temendo evidentemente lo scenario di una convention aperta, sulla falsariga di quanto accaduto nel 1968, quando il presidente uscente Johnson, sommerso dalle polemiche per la gestione della guerra in Vietnam, decise di non ricandidarsi.
I guai democratici
Un’alternativa poteva essere la candidatura di Kamala Harris, attuale vicepresidente, anche se a frenare su tale ipotesi sembra esser stata la straordinaria impopolarità di cui gode la prima vicepresidente donna della storia americana.
Per altro, nonostante ciò, non è possibile escludere emorragie di voti da parte dem per le eventuali “terze candidature”, che potrebbero disturbare il tradizionale bipolarismo politico americano (quella dell’erede di Bob Kennedy in primis, oltre che quelle del Green Party, potenzialmente sostenuta anche dallo scontento di parte della base dem per la politica di eccessiva vicinanza di Biden ad Israele nel contesto del conflitto in corso).
Nessuno ferma Trump
Da parte repubblicana si è invece imposta in maniera prepotente la riaffermazione della candidatura di Trump, espressione di uno zoccolo duro di elettorato radicalizzato che non si riconosce più da tempo negli apparati di potere di Washington D.C. e tantomeno nelle altre figure che il partito repubblicano ha provato ad esprimere.
Detto questo, al momento, i sondaggi (che pure gli sono sempre stati nettamente sfavorevoli), sembrano premiare Trump rispetto al presidente uscente, indicando un leggero vantaggio nel voto popolare a livello nazionale (nell’ordine del 1-2%) che diviene più netto (tra il 3-4%) in alcuni stati chiave come l’Arizona, il Nevada, la Georgia e il Michigan.
Nessun candidato credibile in campo GOP
Emblematico l’esito delle primarie repubblicane, in cui Trump, ha prima vinto in maniera netta le primarie dell’Iowa, forzando al ritiro dalla corsa il governatore della Florida Ron DeSantis, che in precedenza sembrava l’uomo ideale per mediare tra la base “MAGA” dell’elettorato trumpiano e il mondo istituzionale del GOP; sulla scena ha provato a restare la sola Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina, tentando di esprimere un elettorato repubblicano moderato alternativo a Trump.
La scommessa della Haley, nonostante le abbondanti risorse finanziarie raccolte tra il mondo dei donatori del “big business” si è schiantata contro cocenti e nette sconfitte, inclusa quella dello stato di casa, il South Carolina, riuscendo ad imporsi solo nello stato superdemocratico del Vermont (e pure di misura) e a Washington D.C. (distretto noto per votare democratico per oltre il 90%).
Ancora Trump Vs Biden
La sfida, dunque, è tra gli stessi contendenti del 2020, avvelenata dalle accuse, mai rinunciate da parte di The Donald, di frode elettorale subita all’ultima tornata.
Entrambi i campi sembrano sempre più avvitati in una logica di delegittimazione reciproca: se infatti Trump insiste costantemente sulla frode subita, inforsando tutta la legittimità dell’amministrazione Biden (per altro ovviamente descritta come la “peggiore di sempre”), da parte democratica non stanno mancando i tentativi per eliminare (o almeno azzoppare) Trump per via giudiziaria, con procedimenti che hanno tutto il sapore di processi politici ad personam.
Due mondi a confronto
Entrambi le parti non mancano di sottolineare nelle proprie propagande come dal voto dipenderebbero le sorti stesse della democrazia americana, con i dem che paventano nei loro messaggi una eventuale perdita delle libertà fondamentali e di svolta autoritaria in caso di nuova vittoria di Trump e con Trump che denuncia invece la sommersione demografica via immigrazione incontrollata che metterebbe a rischio la trasparenza del voto, tramite l’importazione, condotta in maniera consapevole e calcolata da parte delle élite dem, di milioni di nuovi elettori (legali o meno).
È ancora lunga
A tutto ciò, si aggiunge una situazione di politica estera estremamente tesa (soprattutto se confrontata con i 4 anni di relativa stabilità dell’amministrazione Trump), con la guerra in corso in Ucraina e quella di Israele in Medio Oriente, un’economia che, pur in crescita, risente del difficile momento di gestione del ritorno dalla fiammata inflazionistica post covid e post crisi energetica, uno scontro sempre più radicale su temi fondamentali che si potrebbero definire “etici” e di “visione del mondo” altamente divisivi, aborto in primis.
I fronti sono perciò tanti per gli sfidanti di novembre, la battaglia per la Casa Bianca più aperta che mai.
Filippo Deidda
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