Costituzione fucsia: La fiction di Giorgia e Elly – Dai tempi delle “bicamerali”, gli analisti politici hanno sempre indicato nell’incapacità di aprire una vera e propria fase costituente, magari indicendo le elezioni per l’elezione di un’apposita Assemblea nazionale a ciò incaricata, la ragione per la quale, in Italia, è impossibile varare riforme delle istituzioni serie e strutturali.
Di recente, poi, si è indicata nella “personalizzazione” dei percorsi di riforma – esempio lampante quello di Matteo Renzi – l’ulteriore negatività che avrebbe impedito di cambiare il sistema e le regole del gioco politico, trasformando le proposte di cambiamento della Costituzione in una sorta di plebiscito sul gradimento del premier in quel momento in sella.
L’idea del Ministro Ciriani
Nulla di più sbagliato, da quanto si può evincere dalle parole del ministro Luca Ciriani, il quale, di fatto, ne fa solo una questione “di colore”, indicando la tonalità giusta per far sì che la riforma costituzionale prenda il volo: il rosa o, meglio, il fucsia che, oltre che femminile, ha un che di transgender.
Se <Giorgia e Elly lavorano insieme>, dice il Nostro, l’Italia avrà il “premierato” e il ritorno alle preferenze.
Perché annoiarsi con seri e noiosi maestri del Diritto, quando è sufficiente un buon “make up artist”?
Tanto più che, se non fosse tanto politicamente inconsistente, Elly potrebbe pure accettere, visto che il “premierato” non serve al Paese e men che meno al Centrodestra, ma solo al Pd.
Infatti, contrariamente a quanto propala Giorgia nel suo ormai noto video, dei tanti primi ministri della Seconda repubblica – riferirsi alla Prima è solo un esercizio di ignoranza, data la diversità sostanziale del sistema e della pratica politica all’epoca in voga -, solo quelli del Centrosinistra non sono mai stati scelti dagli elettori.
Un coacervo di leggi elettorali
Pur in un’altalenanza di leggi che solo l’Italia ha conosciuto nell’intero Occidente – alle “politiche” non si votano due elezioni con l’identico sistema elettorale da lustri e lustri: si cambia sempre qualcosa o tutto quanto -, quando il Centrodestra ha vinto, i suoi elettori hanno contestualmente scelto il capo del governo: Silvio Berlusconi dal 1994 al 2022, Giorgia Meloni nell’ultima tornata.
Non solo: gli elettori del Centrodestra, pur con regole non esattamente attagliate alla bisogna, hanno anche punito i loro capi che sono stati ritenuti, a un certo punto, indegni della loro fiducia: chiedete a Gianfranco Fini, a Pier Ferdinando Casini (costretto a pietire un seggio agli avversari di sempre), in parte a Umberto Bossi.
Lo stesso Matteo Salvini, l’anno scorso, ha pagato durissimamente il suo ondivagare tra piazza e palazzo.
È la Sinistra che, dal 1994 a oggi, ha sempre e solo fatto vincere “il partito”, delegando allo stesso il compito di far governare colui che, in un dato momento – e sempre per non tantissimo tempo, in verità – è sembrato sintetizzare al meglio i sentimenti, le prospettive e le aspettative di quella parte politica.
Però, proprio a partire da Renzi, ma forse anche da prima, non è che il Pd non abbia tentato di “personalizzare” la sua noiosa macchina da guerra, anzi.
Un “premierato” utile solo alla sinistra
E il “premierato” servirebbe, appunto, solo a impedire al Pd-partito di frapporre ostacoli, come è sempre accaduto, al Pd-leader.
Tutto sommato: chi se ne frega?
Della norma antiribaltone, alla fine della fiera, è rimasta solo l’impossibilità per il capo dello Stato di scegliere eventualmente un “tecnico”, potendo sostituire il “premier eletto” solo con un altro eletto della coalizione vincente.
E allora, cosa cambierebbe, in sostanza?
Nulla, poiché, in casi come quelli che videro estromettere Berlusconi nel 2011 con un qualcosa che molto odora di golpe, si troverebbe facilmente una testa di legno da circondare e far manovrare da una pletora di ministri tecnici nei ruoli chiave.
Nominati da chi?
Ovviamente, dal presidente della Repubblica, i cui poteri – gli unici che sarebbero stati profondamente da riformare – non vengono di fatto scalfiti, se non appunto in minima parte, dalla proposta targata Fratelli d’Italia.
Si possono fare tutti i balletti più sinuosi su Tik-Tok o i sorrisi più accattivanti su Instagram, ma la sostanza non cambia: l’Italia, se passasse la riforma Meloni, resterebbe una repubblica parlamentare a bicameralismo perfetto e guidata da una diarchia composta da presidente della Repubblica e del governo.
Esattamente come ora.
Anzi, quasi come ora, dato che, come già detto, il futuro capo dello Stato, ragionevolmente espressione del Centrosinistra come sempre, avrà un’arma in più per mettere in riga i suoi ex-compagni di partito, qualora vincessero le elezioni.
Sul voto di preferenza, poi, giusto un telegramma.
Esistono due modi per far scegliere agli elettori il parlamentare: la preferenza, appunto, che alimenta, però, il mercimonio politico, il voto di clientela, la necessità di soldi, il potere di condizionamento dei media e dei social che, per altro, non sono neanche più liberi come qualche anno or sono; oppure, il voto di collegio – come in Germania – dove il candidato unico in una frazione del tessuto elettorale è chiamato, se vuol essere eletto, non a raccogliere il consenso della “banda” più forte nel territorio di riferimento, ma quello del maggior numero di cittadini per il suo partito, per il programma che propone e per la leadership che sostiene.
Col sistema delle preferenze, i leader si contornano di “capibastone”, di vassalli e valvassori; col collegio unico – con ripartizione proporzionale – sono costretti ad affidarsi a chi realmente è radicato nel territorio.
Per quale sistema elettorale si orientano, nel Centrodestra?
Ecco, appunto…
Ma, come dice Ciriani, il problema non è dare all’Italia un assetto istituzionale forte, ma mettere in scena la nuova fiction: Giorgia and Elly, togheter!