“Controcanto” alla narrazione ufficiale dei fatti nazionali e mondiali. Quarta intervista a Claudio Mutti, Direttore della Rivista di geopolitica Eurasia.
D. – Negli Stati Uniti, durante un comizio per le presidenziali, Donald Trump ha subìto un attentato.Sono stati diversi gli inquilini della Casa Bianca, candidati alla presidenza o esponenti politici presi di mira. Commentando l’attentato, la portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova ha incoraggiato gli Stati Uniti a fare un “inventario” delle loro “politiche di incitamento all’odio contro gli oppositori politici, i paesi e le persone”. Come si può leggere tale avvenimento e quali conseguenze potrà avere?
R. – Negli Stati Uniti, fulgido esempio di democrazia proposto all’imitazione di tutto l’Occidente, attentare alla vita dei presidenti è una consolidata tradizione nazionale. Dopo il fallito attentato contro il presidente Andrew Jackson (1835), sono stati uccisi quattro presidenti in carica: Abraham Lincoln (1865), James A. Garfield (1881), William McKinley (1901), John F. Kennedy (1963). Tre presidenti sono stati feriti in tentativi di omicidio: Ronald Reagan, mentre era in carica (1981), e gli ex presidenti Theodore Roosevelt (1912) e Donald Trump (2024). Altri due candidati alla presidenza sono stati vittime di attentati: Robert F. Kennedy, ucciso nel 1968, e George C. Wallace, gravemente ferito nel 1972. Gerald R. Ford (due attentati nel 1975), Ronald W. Reagan (1981), Bill Clinton (1994) sono sopravvissuti.
Per quanto riguarda in particolare le conseguenze dell’attentato a Trump, quella più scontata è la sua inevitabile elezione alla presidenza degli Stati Uniti, la quale avrà tra i suoi effetti immediati la formazione di una sorta di “internazionale sovranista”: uno schieramento di governi e forze politiche allineate con Washington sulla base ideologica di una presunta alternativa al globalismo. Le prevedibili mosse della futura amministrazione americana in direzione della Cina (sostegno a Taiwan) e del Vicino Oriente (più deciso sostegno all’entità sionista) potranno contare sul consenso di queste forze e di questi governi.
D. – Washington e Berlino hanno comunicato che dal 2026 cominceranno a dispiegare in Germania missili a lungo raggio, prima in modo “episodico” e poi “duraturo”, per “dimostrare l’impegno degli Usa verso la Nato e il suo contributo alla deterrenza integrata europea”. Possiamo considerarlo l’inizio di una nuova guerra fredda?
R. – Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno deciso di dispiegare sul suolo tedesco missili a lungo raggio, tra i quali gli Sm-6, Tomahawk e armi ipersoniche, inaugurando in tal modo una nuova fase di tensione tra l’Occidente e l’Eurasia. La NATO rafforza lo scudo difensivo in Ucraina e minaccia sanzioni contro Pechino, aumentando il rischio di una nuova corsa agli armamenti e di un intensificarsi della tensione tra i due blocchi.
Difatti il viceministro degli Esteri russo, Sergej Rjabkov, ha dichiarato che Mosca reagirà a questa nuova minaccia con una serie di misure coordinate, mentre il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha accusato Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Germania di partecipare direttamente al conflitto in Ucraina e ha definito la dichiarazione del vertice NATO una “grave minaccia” per la sicurezza della Russia.
Da parte sua la Repubblica Popolare Cinese ha dichiarato, per bocca di un suo portavoce presso l’UE, che “la NATO dovrebbe smetterla di agitare la cosiddetta minaccia cinese e di incitare allo scontro e alla rivalità e dovrebbe invece contribuire maggiormente alla pace e alla stabilità internazionale”. Tutto ciò effettivamente indica l’instaurarsi di un clima di tensione simile a quello della Guerra Fredda, con potenziali implicazioni per la sicurezza internazionale ed una possibile nuova corsa agli armamenti.
D. – Intanto i russi avanzano in territorio ucraino… Più precisamente, qual è lo scenario bellico nell’est Europa? Ha ragione il presidente turco Erdogan quando afferma che “Il conflitto in Ucraina non finirà presto”?
R. – In ogni caso Erdogan, nonostante la Turchia faccia ancora parte della NATO, si sta dando da fare per individuare una soluzione del conflitto. “Credo – ha detto infatti il presidente turco – che la Turchia sarà il punto di soluzione per i passi da compiere, soprattutto per quanto riguarda la parte orientale dell’Ucraina”. Ed ha confermato che un suo consigliere e il viceministro degli esteri turco si sono recati a Kiev e in settimana andranno a Mosca per organizzare un incontro fra Russi e Ucraini ad Istanbul o ad Ankara.
D. – Kaja Kallas si è dimessa da primo ministro estone, per assumere la guida della politica estera dell’Unione europea, dove sostituirà Josep Borrell. È una delle personalità più critiche verso la Russia in Europa. Tale designazione può rappresentare una provocazione nei confronti della Russia, che interpreta il messaggio come una chiusura al dialogo?
R. – Dmitri Peskov ha dichiarato ai giornalisti che contro l’esponente liberale Kaja Kallas è stato emesso un mandato d’arresto per avere intrapreso “azioni ostili” nei confronti della memoria storica della Russia. (È facile presumere che l’accusa riguardi la decisione di demolire i monumenti di guerra sovietici presenti in Estonia). A parte questo, Kaja Kallas ha sostenuto la necessità di sanzionare la Russia e di fornire aiuti finanziari e militari all’Ucraina. Perciò, se Bruxelles voleva attuare una provocazione nei confronti della Federazione Russa affidando a un estremista russofobo gli affari esteri dell’UE, non poteva scegliere un personaggio più adatto della Kallas.
Matteo Pio Impagnatiello
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