Considerazioni sul terremoto Turco-Siriano – Penso vi sia capitato ogni tanto di avvertire quella sensazione di vuoto sotto i vostri passi, quello sgretolamento che ti trascina e ti avvolge, sia da un punto di vista materiale e concreto sia da un punto di vista astratto, ideale e anche spirituale.
E allora mi domando, che cosa sono il terreno e il suolo se non la stabilità essenziale che garantisce prima di ogni cosa quel senso di sicurezza e poi di appartenenza alla terra?
Voltaire ispirato dal terremoto di Lisbona
Dopo il terremoto che spezzò la città di Lisbona il 1° novembre 1755, il filosofo francese François-Marie Arouet, meglio noto come Voltaire, ispirato dall’evento pubblicò nel 1756 il Poème sur le désastre de Lisbonne e nel 1759 il più conosciuto Candide, ou l’Optimisme, con protagonista l’inguaribile ottimista Candido che mette continuamente a repentaglio la sua vita affrontando peripezie sempre giustificate dalla patologica illusione che tutto vada sempre per il meglio.
Di fronte a quella tragedia immane Voltaire si scagliava contro il finalismo teologico, contro quella visione della vita intesa come un tragitto lineare e obbligato che condurrebbe l’uomo verso una o più finalità.
Insomma, un’aspra critica all’ottimismo metafisico di matrice leibniziana e alla teodicea illuminista tout court.
Lungi dall’immedesimarmi nel ruolo di Voltaire e lungi dall’elaborare un pensiero egualmente articolato, cerco lo stesso di riflettere sulla condizione umana che viene sempre chiamata all’appello quando un evento micidiale come il terremoto sale in cattedra.
Una terra stanca e offesa
La ecatombe umana che si sta consumando in queste ore nelle terre di Siria e nelle terre dell’Anatolia, conosciuta sin dall’antichità come Asia Minore, o semplicemente Asia – gli antichi greci che abitavano la penisola ellenica la definivano la terra da dove sorge il sole – è un evento che induce a pensare.
Questa terra che trema ha dato la sensazione di una terra stanca e offesa, una terra quasi infastidita dalla presenza dell’essere umano e perciò risoluta nella “sua scelta” di scuotere la sua pelle dura, incrostata e anziana e scrollarsi di dosso quegli irrilevanti individui (noi).
Un movimento analogo a quello che compie il cavallo quando è “molestato” dalla presenza seccante delle mosche, che per scacciarle mette in moto quel gioco di fibre e muscoli, generando quello che ai nostri occhi appare come un leggero tremore, ma che per la mosca è tutt’altro che debole se ne consideriamo le sue piccole dimensioni.
Ma non siamo insetti
E se dovessimo proseguire per analogie, potremmo considerare il genere umano e la nostra condizione precaria come quella della piccola mosca, ostinata a reiterare la sua azione naturale, quel suo fissismo etologico, come avrebbe detto il filosofo tedesco domenicano Alberto Magno, indotta dalla sua natura a ritornare sempre nel medesimo punto nonostante il tremore della pelle del cavallo, che altro non è che l’avvisaglia di un pericolo imminente: la frusta di coda, colpo ultimo per atterrire la mosca.
Cionondimeno esiste una differenza sostanziale tra la mosca e l’essere umano. La prima, pur non essendo dotata né di facoltà cognitive né di quella vis aestimativa, o facoltà estimativa che le permetterebbe di cogliere l’intentio nociva della coda del cavallo e volare via dal pericolo, può sempre innalzarsi con le sue ali e allontanarsi.
L’uomo, diversamente, nonostante sia dotato di facoltà cognitive che gli permettono di ragionare, valutare e scegliere l’opzione più utile e vantaggiosa in virtù dell’intelletto, non può allontanarsi dal pericolo e non ha la facoltà di innalzarsi in cielo se il pericolo è rappresentato dalla stessa terra dove egli dimora e vive.
Dunque, che cosa comporta questo paragone? È un invito ad abbandonare la terra e tentare una migrazione altrove, e dove?
Verosimilmente, dal paragone uomo-mosca e dalla riflessione sulla precaria condizione umana si dovrebbe desumere che l’unica via possibile è convivere coscientemente con l’idea che prima o poi la terra, la nostra casa potrebbe rivelarsi il luogo più insicuro e inaffidabile. Ma è effettivamente così? Questa minaccia alla nostra esistenza può concretizzarsi esclusivamente nell’inevitabile abbandono a uno stato mentale di indolenza e di apatia, intesa come indifferenza paludosa verso la realtà esterna e l’agire pratico?
Alzare lo sguardo verso il cielo
Guardando i filmati-testimone che giungono alla nostra attenzione vediamo interi palazzi che inizialmente oscillano, accennano un cedimento e poi svengono lasciandosi andare come un corpo senza vita. Una visione disarmante, certo, che non lascia scampo. Tuttavia, in quegli stessi filmati vediamo la speranza: uomini e donne che dinnanzi alle nubi di polvere sollevate dalle macerie di edifici che collassano come giganti dai piedi di argilla gridano invocando il Takbīr, il più comunemente noto «Allāhᵘ akbar». Un grido di speranza e di rinascita.
Probabilmente, per molti di coloro che assistono dall’altra parte del Mediterraneo quel Takbīr è solo un urlo vano e disperato che non può sopire alcun effetto di ripresa. Non può essere certo l’invocazione a “Dio è il più grande” a scavare a mani nude tra i cumuli di detriti, muri sgretolati e fili di ferro contorti.
Tuttavia, quell’invocazione disperata nei momenti di grande difficoltà riesce ad esprimere una risoluta determinazione, una profonda convinzione religiosa (e non solo) che la rovina e la distruzione materiali possono essere travalicate dalla fiducia spirituale e anche dalla credenza superiore in un’entità trascendente (o una forza) chiamata a sé affinché consoli e sopisca il travaglio interiore.
È la fiducia nella vita. È la fiducia riposta in un Dio.
È la fiducia in una forza che pur essendo immateriale è in grado di spronare e plasmare ciò che è materiale.
La rifioritura della vita passa anche attraverso l’invocazione, poiché l’umano si aggrappa sempre a qualcosa (o a qualcuno) quando la disperazione e la paura adombrano la sua mente e il suo cuore.