Considerazioni sopra le emozioni, il senso di sconfitta e l’eterno concetto di anaciclosi.
Esistono emozioni che non siamo in grado di esprimere, che vorremmo intensamente palesare ma che fuoriescono da noi stessi errate, storpie, come se il buon Dio non ci avesse dotati della giusta capacità, di una buona enciclopedia per saper leggere e interpretare il mondo, l’universo che divampa dentro di noi.
Spesso, tuttavia, le nostre emozioni non riescono nemmeno a fuggire, non scappano, restano incastonate lì, non possono oltrepassare il confine materiale delle nostre membra, delle nostre articolazioni e dei nostri nervi in tensione. Esse sono come un frontaliero o un viaggiatore che vorrebbero attraversare il confine, ma quel passaggio gli viene impedito perché prive del documento, perciò costrette dentro quel limite, in quel perimetro, in quel silenzio assordante, una voce strozzata e soffocata che percepisce quella sensazione di annegamento e niente può salvarlo.
Il senso di sconfitta
È quell’irrefrenabile senso di sconfitta che avanza, che sopraggiunge e si consolida lentamente, che mette radici, che si aggrappa al terreno esistenziale e si rafforza con un grado proporzionale alla consapevolezza che i meccanismi della vita, gli ingranaggi delle relazioni interpersonali, la sostanza dei sentimenti, l’effetto delle emozioni e il rapporto di causa-effetto che determina la natura umana risultano essere inevitabilmente vincolanti. E in conseguenza di ciò dipende da noi stessi, dalla nostra sovrumana forza dell’intelletto se affrontare, contrastandole, queste dinamiche. Diversamente, non esercitando quello sforzo, se ne accetta l’oggettività degli svolgimenti e ci si lascia soccombere da quel senso di sconfitta che, nel mentre queste parole scorrono dall’inchiostro su questo foglio di carta, è ulteriormente avanzato, compiendo progressi sul terreno di battaglia e facendoci retrocedere.
Esiste un’esistenza impermeabile alle preoccupazioni generate dalla mente, un’esistenza affrancata dalla stupidità e dalla banalità delle agitazioni interiori scatenate dal sentimento d’amore, dall’invidia, dalla gelosia, dal desiderio di potere e di dominio che accerchiano la mente in un anello asfissiante, perfido e spietato, che ignora il concetto di indulgenza?
La questione può risultare banale, vicina a quanto vi è di più dozzinale nel nostro piccolo mondo, particella tra milioni di particelle di un macrocosmo superiore in grandezza, ma non in autorità.
Probabilmente, la domanda di apertura poteva non essere posta, inutile penserete, ma poco importa, convinciamoci della sua funzionalità, del suo ruolo propedeutico all’introduzione del pensiero seguente.
Un’esistenza di tal fatta, scevra del fuoco scaturito dalle collisioni emotive e sentimentali è inaccessibile, è ignorata anche dalle combinazioni algebriche e meccaniche che mettono in movimento i nostri corpi, è la nostra coscienza di essere umani che ce lo impedisce, che la ignora.
L’alternativa?
Un’alternativa non c’è, esiste questa vita, tale palco, questo contesto, questo concerto di sinfonie, un campo di battaglia, dove carichi il fucile, punti e premi il grilletto, e se necessari innesti la baionetta e ti prepari al corpo a corpo. Potresti cadere, sì, morire. Succede. Capita. Ma la lotta, la battaglia, il duello è contro te stesso.
In questa visione devi abbandonare il mondo esterno, il vero campo di scontro è il tuo ‘io’, quel piano inclinato, scivoloso, instancabilmente madido di preoccupazioni, spaventi e timori. E questo confronto con sé stessi è parte integrata di questo grande giuoco, un allegro passatempo che spesso si rivela ingombrante, invasivo, sopra il quale dadi invisibili rotolano lungo il terreno di scontro, si arrestano e con il loro risultato decidono.
Dadi capaci di abbattere tutto ciò che incontrano o di schivare e lasciare preservata l’esistenza, incolume. Almeno per ora.
La vita ciclica
È un movimento casuale che si ripete, perennemente. È ciclico. La vita è ciclica. Polibio definì questa eterno ruotare con il concetto di anakýklōsis, in italiano anaciclosi, teoria storiografica conforme al ciclo vitale delle forme di governo politico, che manifesterebbero le loro esistenze in un alternarsi di evoluzione e di degenerazione, in un ricambio continuo, dalla forma benigna scadendo in quella maligna, lasciando poi il posto a una diversa e migliore forma di governo, giunta lassù, all’apice della ruota, in cima alle vette della saggezza e dell’occorrenza del momento, poiché in quel frangente storico era necessario il cambiamento, il tempo ne richiedeva quell’approccio.
Purtuttavia, anche quest’ultimo modello politico che ha sostituito quello precedente è inevitabilmente destinato al declino, soggetto all’inclinazione di quel piano esistenziale di cui ho accennato sopra, quella superficie che è il nostro terreno di scontro; anch’esso, che si è creduto con presunzione e supponenza eternamente migliore degli altri regimi politici, persuaso della sua eccezionalità immortale, è soggetto al medesimo movimento rotatorio, il peccato di hybris, di superbia non ammette perdono, si paga.
La caduta
E lo si paga a caro prezzo. Cadendo. Così come cadde Lucifero, l’angelo più bello, nel tentativo di elevarsi al di sopra del Padre. Non a caso esiste la locuzione «essere un Lucifero di superbia». Ma dalla caduta si può risalire, ancora, lentamente, così, in eterno, secondo il senso rotatorio polibiano.
E dunque applichiamo il concetto di eterno movimento a questa esistenza, che sappiamo essere una tela permeabile che si inzuppa e si impregna, nel miscuglio delle sostanze, degli odori, degli aromi e dei sedimenti dai quali scaturisce il succo, frutto della spremitura del tessuto, sottoposto alla pressione della forza delle mani, come accade con gli acini dell’uva, dai quali si ottiene da millenni la bevanda ebbra.
Noi siamo quel terreno di scontro. Noi siamo quel succo, quell’essenza che si origina da quella tela, proprio da quell’esistenza così travagliata, da quella vita così descritta e introdotta all’inizio di questo pensiero, che non può fare a meno di incorrere e inciampare nelle vite altrui, nelle contaminazioni altrui, nei confronti altrui, fino a ritrovarsi ogni volta nel raffronto con sé stessi, sopra quel piano che lentamente si inclina e ci fa precipitare nel fondo.
Ma è dal fondo che, ritornando al principio di questo ciclo, al principio di questa considerazione, da dove siamo partiti, le gambe possono distendersi nuovamente e alzarsi in piedi per ricominciare, di nuovo, in eterno.
Riccardo Giovannetti
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