Una scelta di guerra
Nell’era del potere telematico e digitale, perché un periodico cartaceo? La risposta è presto data: è una scelta di guerra.
Vent’anni fa Jeremy Rifkin nel suo “L’era dell’accesso” profetizzava l’imminente progressiva scomparsa della proprietà, così come era stata sempre concepita, in vista di un’economia “liquida” in un società che si stava facendo, secondo i parametri di Bauman, appunto liquida, cosa che si sarebbe riflessa anche nel settore comunicativo e culturale. Il bene materiale sostituito da un accesso, naturalmente a pagamento, la distaccata fruizione in luogo del senso del possesso. Ma non mancava di sottolineare, il sociologo statunitense, i pericoli che questa new economy avrebbe comportato, nel caso in cui i “grandi providers”, i monopolisti della connessione, si fossero trasformati in “tiranni del progresso”, stabilendo forme di controllo e decidendo a chi concedere l’accesso – ossia il diritto alla fruizione del servizio – e a chi no.
Li stiamo vivendo proprio sulla nostra pelle quei pericoli. Per limitarci alla comunicazione, nell’epoca in cui essa è stata adottata come metro, appunto, di progresso, i c.d. Social, ormai divenuti amplificatori privilegiati del dibattito politico e dell’informazione, stabiliscono chi può parlare e chi no, escludendo dal circuito chi non si adegua. Come si possono dunque esprimere le opinioni che gli algoritmi del sistema andranno a censurare, se non evitando, per quanto possibile, gli algoritmi?
L’editore è ben consapevole che contro i “grandi Providers” dell’informazione egli non è in grado di competere e, per questo, sceglie il suo campo di battaglia: la carta stampata. Che, a differenza del bit su uno schermo che la censura telematica può cancellare in un nanosecondo, dà la sensazione di un possesso e l’idea di un rifugio inattaccabile. Un’oasi di libertà, piccola e con scarsi mezzi materiali a disposizione e che per questo non poteva che chiamarsi “Due di Picche”, ossia la carta più bassa del mazzo. Ma che, se rifilata a qualcuno, acquista un significato diverso, quello di un rifiuto.
Rivolto innanzitutto ai nemici, facilmente identificabili una volta che precisiamo che siamo amici di chi ama l’Italia, le sue radici, la sua lingua, i suoi profeti, le sue tradizioni, civili e religiose, la sua civiltà. Siamo amici di chi rigetta il suo asservimento, politico ed economico, la cancellazione e lo svilimento della sua storia, la deformazione dei suoi connotati, etnici e culturali. E il nostro rifiuto è rivolto anche ai tiepidi, quelli che non vogliono rischiare, compromettersi, dispiacere agli altri: i “moderati”, come se quelli che stiamo vivendo siano tempi che consentano, non già prudenza che è virtù essenziale, ma moderazione.
Anche fra coloro che possono definirsi “amici” – e ce ne sono tanti – dobbiamo però sventolare a mo’ di ammonimento il nostro “due di picche”. Per avvertire che non si può assicurare la vittoria delle proprie idee se non si individuano i nemici e non li si considera come tali. Con la conseguente necessità di adottare le misure che una guerra, ovviamente in termini politici, richiede.
Capacità di comunicazione e propaganda, uso degli strumenti più adeguati per combatterla, ricorso ad alleanze, conquista di spazi e, soprattutto, una strategia che consenta, diversamente dalla politica alla giornata a cui siamo oggi abituati, di riconoscere i contorni di un punto di arrivo.