Camicie Nere della Liquidazione: presente! – Quattro anni fa una banale notiziola di costume mi fornì lo spunto per buttar giù un articolo che veniva più dalla pancia che dalle buone letture. Parlandone con un paio di amici mi parve onesto definirlo uno “sfogone”.
L’altro giorno esplorando il mio computer l’ho riletto e, al di là del banale pretesto, mi è sembrato malinconicamente ancora attuale.
Eccolo.
Una scorsa distratta alla pila dei giornali della stagione passata, lasciati negletti al loro fiacco blaterare, è valsa una sorpresa.
Nella torpida estate italiana ha fatto furore la camicia nera.
Calma. Non si è trattato di un’epidemica botta di nostalgia. Né d’una moda imposta dall’ultimo stilista di grido. Soltanto il tormentone d’ una canzoncina da spiaggia, interpretata da un ragazzotto colombiano, che incautamente ostentava la sua “camisa negra”, insegna di lutto per un amore perduto.
Tanto è bastato a scatenare le censure della sinistra, capace di prendersi sul serio anche di fronte alle più solenni minchiate: “Indymedia”, il sito di riferimento dei no global, ha sparato a zero chiedendo di boicottare questa sfacciata “apologia del fascismo”.
La polemica è finita (nientemeno) tra i titoli di apertura della stampa quotidiana.
Il “Secolo d’Italia”, avvocato d’ufficio dell’autore (Juanes), si è incaricato di sdrammatizzare quella che ha definito “ una burla pop di mezza estate”. Ma non si è sottratto a battere grancassa sull’indumento e il suo contrastato successo.
Perfino il “Corrierone” ha conferito dignità di prima pagina “alla hit che stuzzica i cuori della destra” e ci informato che “in discoteca, alle prime note, i simpatizzanti partono con il saluto romano”.
Il cronista agostano, tergendosi il sudore, si è affannato a raccogliere le reazioni degli addetti ai lavori del costume e della politica. Le ha ospitate in un paginone ove è dilagato il pensoso dilemma sull’uso dei termini compagno, rinverdito da Prodi, e camerata, esorcizzato da La Russa.
Vabbè, si dirà: la magra estiva è liturgia implacabile per la carta stampata. Eppure, volando oltre l’abboffata di papa-boys, tra massacri di folle sciite e scannamenti per le leadership dei poli, con queste minimalia, l’informazione ha finito col restituirci, certo senza volerlo, la nozione precisa della realtà e lo spessore dei valori correnti.
Il fatto è che siamo alla frutta. Anzi all’ammazzacaffè.
La contesa cretina sulla “camisa negra” richiama alla memoria certe altre ingenue camicie nere della mia giovinezza. Mi riporta ad una città ligure e agli anni ’60. Allora i libri maledetti, epurati dalle biblioteche li trovavi ravanando sulle bancarelle dell’usato e le camicie nere non erano moda fighetta per vitaioli. Introvabili. Poco male: noi ragazzi rimediavamo bollendo in un pentolone, sul greto del fiume Magra, innocenti camicie kaki, che sarebbero diventate nere che più nere non si può con l’impiego della tintura “Nero d’Inferno”.
Le avremmo indossate, fieri della provocazione, affrontando – faccia a faccia – una parata partigiana o scompigliando qualche assise di democratici restauratori.
Anche noi cantavamo spagnolo, come i ragazzi “di destra” fanno oggi nelle discoteche.
Ma faccia al sole. A muso duro, intonavamo “Cara al Sol” e non c’erano applausi. Finiva tutto in una scazzottata. Seguiva cellulare, identificazione, duro verbale della squadra politica (la Digos del dopoguerra). A chi andava peggio toccava qualche rattoppo al pronto soccorso. Per tutti ostracismo delle ragazze, della scuola, della famiglia.
Pagavamo un prezzo salato per qualcosa che, nella prospettiva del tempo – capace di spegnere i ricordi bollenti nella fredda logica della maturità – potrebbe parere una goliardata.
Ma non era del tutto così.
La nostra camicia nera voleva significare ai rabbiosi epigoni di Caino, che la mattanza delle “radiose giornate” non aveva cancellato la meravigliosa Eresia. Che il testimone era stato passato.
Nella nostra giovane età non ci rendevamo neppure conto che le rovine della guerra erano ancora calde e il sangue della guerra civile appena rappreso. Dieci, quindici anni erano trascorsi. Alcuni dei nostri antagonisti aveva ancora quel sangue incrostato nelle mani. Non immaginavamo neppure quanto. Ci sarebbe stato bisogno, a fine secolo della penna di un antifascista atipico come Giampaolo Pansa perché la comunità nazionale fosse informata di quanto e quanto innocente, fosse stato “il sangue dei vinti”.
Fatico a capire quali idee-forza, quali emozioni, quali speranze possano animare, oggi, un ragazzo che sceglie di fare politica. Ma ricordo bene le nostre motivazioni.
Non si trattava soltanto di rialzare, romanticamente, la bandiera umiliata e tradita dell’identità nazionale. Dovevamo combattere, con le armi dell’intelligenza e della provocazione, della propaganda e della testimonianza, dello stile e, se c’era, del fascino personale, una nuova fase di quella guerra che non si era mai conclusa con una resa. Il conflitto dell’Europa contro i mercanti d’occidente e l’imperialismo sovietico continuava, in uno scenario falso, edulcorato da papi buoni e sorrisi kennediani.
Non potevamo accettare che a Yalta fosse stato deciso, per sempre, il destino dei popoli.
Adriano Romualdi ci guidava alla scoperta di Drieu La Rochelle e ci parlava del Mito dell’Europa.
Ne profetizzava la fine: “si spegnerà lentamente nel benessere e nella democrazia finchè, nell’ora immancabile del giudizio storico finale, sarà travolta dalla rivolta mondiale dei popoli di colore guidati da una Cina inesorabile”. L’ Apocalisse di Drieu: “folle mostruosamente armate in marcia attraverso il pianeta per costruire imperi continentali”.
Iniziava un nuovo percorso ideale verso tante diverse Patrie, da Brest all’Elbruz, da Narvik a Creta. Cercavamo d’incontrare gli altri giovani europei e, intanto, lasciavamo l’ascia bipenne per la croce celtica. E ci sembrava di alzare al cielo l’anima stessa della nostra vecchia Europa.
Quel simbolo avrebbe attraversato un vasto arcipelago di progetti diversi, segnando pagine di esaltazione e di lutto. Per finire sulle curve degli stadi…
Attorno imperversava l’italietta utilitaria e meschina , furba e corruttrice dei personaggi di Alberto Sordi. Ma noi sentivamo come il fare politica non fosse soltanto puntiglioso rifiuto da post-napoleonici, eredi inadeguati di un titanico conflitto dell’oro contro il sangue.
Qualche anno più tardi, con Niccolai, scoprendo la fronda fascista di Berto Ricci, avremmo capito che politica era passione civile, “quella cosa per cui uno si occupa dei guai degli altri come se fossero i propri. E per quei guai è disposto a dare la vita”.
Noi ragazzini, la “gioventù nazionale”, ci limitavamo a saltare cinema e colazione e mettevamo da parte i soldi per una risma di carta da ciclostile.
La biblioteca si allungava. Le letture degli scomunicati ci schiudevano cieli nuovi.
Inutilmente i prof abbaiavano dalla cattedra il copione della barbarie fascista e i miei temi finivano all’attenzione rabbiosa di un Preside livido e rieducatore.
Più ci escludevano, più eravamo fieri della nostra solitudine. L’emarginazione non ci lasciava il tempo di dare spazio a un sospetto: che la parodia delle nostre camicie nere potesse, alle lunghe, servire – nel teatrino dei pupi della politica italiana – al disegno normalizzatore del Potere.
Neri contro Rossi. Con la benedizione di Washington, dove alcuni alti dirigenti si recavano in pellegrinaggio.
Noi, “i figli del Sole”, ci sentivamo esentati dal dubbio.
La scoperta di Evola ci dava la forza, immensa e inaspettata, di respingere le lusinghe del mondo moderno, la speranza di restare in piedi tra le rovine, lezioni di aristocratica immunità per sopravvivere al nostro tempo bastardo cavalcando la tigre.
Giovanni Gentile non ci bastava più.
Leggevamo di tutto. Da Pareto a Sorel, da Spengler a Maurras, scoprivamo la poesia di Pound e di Brasillach, le invettive di Céline.
Tradizionalisti e socialnazionali, rautiani e “avanguardoni”, i diversi pendolavano tra partito e movimenti, rischiando cento volte la pelle per fare scudo ad Almirante (e per tenere invalicabile la linea della nostra agibilità politica).
Ma alzammo la voce in un rotondo NO quando il Capo ci parlò di “scontro fisico” proprio mentre bussava l’urgenza di creare l’unità di una generazione, in rivolta contro il vecchio mondo, che minacciava di disintegrare il sistema.
Nelle vecchie Federazioni, riverniciate di colori pastello e ripulite del Testone, arrivavano zaffate mefitiche: flatulenze massoniche, alitare senile di vecchi ammiragli, incensi d’oltre Tevere.
Vedendo le nostre barbe, qualche reduce ci dava del “castrista”: comunisti a noi che avevamo rischiato la pelle contro i katanga e gli autonomi!
Gli uomini d’ordine rischiavano le coronarie e il portafogli, tutti golpe e bottega.
La nostra camicia nera si era lisa e stinta. Ormai ci andava stretta di spalle.
Né destra né sinistra. Al di là della destra e della sinistra.
Per quelli come me che venivano dalla militanza dura e pura dei primi anni sessanta, non c’era gioia ad attaccare notabili e galloppini , constatando che il neo fascismo era divenuto orpello rituale ed alibi elettorale; ci faceva male ascoltare i grilli parlanti della Nuova Destra teorizzare il “mito incapacitante” delle nostre origini e offrirci lezioni di gramscismo di ritorno.
Quando qualcuno ci chiamava “intellettuali” provavamo remota vergogna. Venivamo da una scuola dove faceva grado il coraggio e non la lettura.
E poi, qual era il filo d’Arianna giusto per non perdersi nei meandri delle nostre bibliografie?
Per dirla con Veneziani, eravamo “un fascio di Eresie”.
Mentre il mondo, intorno, impazziva, le abbiamo provate tutte: esoterismo, ecologia, etologia, nuove scienze. Mentre il sangue arrossava i marciapiedi del nostro Paese, resistevamo alla disperazione del ghetto, alla follia della ritorsione, aprendo i microfoni delle nostre radio e scrivendo canzoni. Provavamo la religio dello stare assieme sotto i cieli, alti e puliti, dei Campi Hobbit.
Verso gli Altri, quelli che non abbiamo saputo salvare, troppe volte inghiottiti dalle galere e dagli obitori, non abbiamo mai ostentato la saggezza “di chi ha capito tutto”, ma offerto il rispetto doloroso e attonito che si deve a chi ha pagato un prezzo sproporzionato ad un tempo di lupi e di sciacalli, senza accorgersi che sulla pelle di questo Paese subalterno danzavano sconciamente arabi e Mossad, americani e Servizi Servizievoli.
Oggi tutto ciò pare lontano, alle spalle.
Restano soltanto piccoli fuochi fatui di extraparlamentarismo dispersi nell’immensità di internet.
Tutto questo spreco di ormoni e d’idee sembra essere davvero stato inutile.
Aveva ragione Veneziani quando ci avvertiva di non aspettarci (e di non pretendere) che A.N. fosse “una specie di braccio secolare della cultura di destra, che Fini sia la prosecuzione di Junger con altri mezzi”…
Non ho bevuto l’acqua di Fiuggi e mi è difficile un giudizio sereno.
Ai fratelli più piccoli, abbronzati dalle luci delle telecamere, che arrancano nella palude burocratica sforzandosi (a volte con qualche lodevole onestà d’intenti) di dare, per decenza, buona prova in un ministero o in un consiglio d’amministrazione, va la nostra impacciata comprensione.
I partiti rispondono a sistemi soffocanti di alleanze interne e di ricatti internazionali. Non sono ordini cavallereschi.
Un mio vecchio amico, un avvocato ligure che milita in questa destra “schiacciata e appiattita”, mi dice che non bisogna pretendere troppo. Per lui quel Circolo è un luogo legittimante, un ufficio che gli offre qualche modesto strumento di lavoro, che gli consente di testimoniare, ancora, sprazzi di alterità sdoganate, destinate altrimenti a perdersi.
Invidio, quasi, il suo pragmatismo.
Come nella sequenza di un vecchio film, vedo i fanalini di coda del treno, carico dei nostri ardori e delle nostre speranze, che si allontanano, implacabili, nella prospettiva raggelante di un binario morto.
Alzando gli occhi posso leggere, nitida, la cartelliera della stazione. C’è scritto: “Potere”.
Allegri, camerati. E’ stata una strada dura, tortuosa, segnata di lapidi, ma ci siamo arrivati.
Possiamo perfino cantare “Camisa Negra”.
Walter Jeder