A proposito del “boia chi molla” del sindaco di Rieti e della schifiltosa reazione di Letta. Quel grido significò la difesa dei nostri territori contro gli amici di Togliatti e i nemici dell’Italia.
“Mona chi ghe crede, boia chi mola”.
Questa la risposta, ironica ed impudente d’un anonimo bersagliere veneto del I^ battaglione volontari, poi chiamato “Mussolini”, alla lettura da parte degli ufficiali dei comunicati incoraggianti emessi dagli alti comandi.
“Fesso chi ci crede ma boia chi molla”
Loro, quei Bersaglieri, quei Marò, quegli Alpini, quei Carabinieri, quei Legionari, quelle Camicie Nere, quei militi della Confinaria e della Guardia di Finanza avevano perfettamente capito che non avrebbero potuto resistere tanto tempo alla pressione slava che premeva sui confini orientali d’una patria ormai perduta.
Sapevano che gli “alleati” tedeschi, resi furiosi dal voltafaccia badogliano, ormai consideravano quelle terre – a cui avevano imposto un’amministrazione chiamata “Supremo Commissariato per la zona di operazioni del Litorale Adriatico” da loro presieduta – una merce di scambio, pronta ad essere barattata per assicurarsi la lealtà dei loro alleati croati.
Cosicché i nostri soldati non solo dovevano affrontare un nemico crudele che non faceva prigionieri ed era temibile per la sua efferatezza ma dovevano guardarsi le spalle da pretesi alleati pronti a sabotarti.
Le cose vanno dette senza reticenze.
Il Tedesco, eroico nella resistenza contro gli alleati angloamericani e nell’urto contro le orde sovietiche, si comportò molto male con noi, in quelle terre di confine che separavano la civiltà dalla barbarie.
Quando le stazioni radio diffusero l’8 settembre il comunicato dell’EIAR che annunciava la fine della guerra a Trieste nessuno si fece illusioni perché lì sapevano che i problemi affrontati fino ad allora, razionamenti, bombardamenti, angoscia di madri e spose, si sarebbero moltiplicati.
E così fu: da un lato Ante Pavelic, appoggiato dalla Germania dichiarava guerra all’Italia rivendicando alla Croazia tutti i territori della costa adriatica, dalmata, Zara inclusa; dall’altro, contemporaneamente, i partigiani titini, appoggiati dai comunisti italiani, occupavano l’Istria proclamandone l’annessione alla Jugoslavia.
Le truppe italiane, diversamente da quelle tedesche, erano state colte di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, e il loro sbandamento favorì l’occupazione di Gorizia da parte delle bande titine, spalleggiate dai partigiani italiani.
Furono tre giorni di saccheggi, di violenze e di terrore, preludio a quanto sarebbe accaduto dopo la fine della guerra.
L’11 settembre cadeva anche Spalato e per diciassette giorni le bande comuniste ebbero mano libera; i tribunali popolari che condannavano a morte gl’italiani erano presieduti da un ex barbiere spalatino di nome Janos Papo, divenuto commissario del popolo; questo individuo dettava personalmente l’elenco degli italiani da sopprimere; li dettava perché era analfabeta.
Tutta l’Istria e la Dalmazia, fatte salve Zara, Pola e Fiume, subirono in quel dopo armistizio la barbarie slavo-comunista.
Nell’ ottobre del ’43 i primi reparti inquadrati nella RSI che giunsero a Gorizia furono i volontari bersaglieri del I^ battaglione; essi tennero un fronte di venticinque chilometri fino alla fine della guerra; addirittura alla fine di maggio del 1945 erano ancora attivi presidi di soldati che continuavano a combattere.
Erano operai, impiegati, borghesi, liceali, accolti in tutte le città giuliano dalmate come difensori della patria.
Fino alla fine delle ostilità, migliaia di soldati persero la vita, in combattimento ma soprattutto in agguati e solo il collasso della Repubblica Sociale permise alle bande di Tito di impossessarsi delle città italiane; il primo maggio del 1945 i primi reparti delle truppe slave entrarono a Trieste.
Quel giorno Togliatti, ministro del governo provvisorio, da Roma inviò ai triestini il seguente messaggio: “Nel momento in cui giunge notizia che le truppe di Tito sono entrate nella vostra città inviamo a voi lavoratori il nostro fraterno saluto. Il vostro dovere é di accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con esse nel modo più stretto”.
In ogni città occupata dagli slavo-comunisti iniziarono a funzionare i tribunali del popolo: eccidi, deportazioni, infoibamenti.
Interi libri sono stati scritti per ricordare gli orrori che i nostri soldati ma anche i civili, le donne, i vecchi e i bambini subirono da quella marmaglia senza umanità.
Nessuno a Roma, anche negli anni successivi alla guerra, si preoccupò dei nostri prigionieri: per il governo non erano italiani degni d’attenzione.
Soltanto nel 1947 gli slavi si determinarono a rimpatriare quei pochi prigionieri ch’erano sopravvissuti all’inferno dei campi di detenzione.
Boia chi molla!