Benvenuti nel sinistro mondo del parolicidio – Pubblichiamo a beneficio dei nostri lettori un interessante articolo pubblicato lo scorso 08 gennaio sul sito “Ricognizioni”.
Così, la sinistra ha rapito e violentato un’altra parola: dalle brume di una Storia lontana, ha riesumato il termine “patriarcato” e si è accanita su di esso, corrompendone il significato e pervertendolo con l’attribuzione di un falsificante e spregiativo disvalore.
Ciò che è altrettanto disdicevole è che molti esponenti del soi-disant centro-destra, compresi ben tre ministri, per ignoranza o sottomissione, hanno utilizzato il termine “patriarcato” nel significato imposto dalla sinistra, cadendo così nella sua trappola semantica dell’inversione valoriale delle parole.
Il Matriarcato
Dovrebbero essere condannati a leggere Das Mutterrecht, Il Matriarcato (sottotitolo: Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico secondo il suo aspetto religioso e giuridico), testo erudito e dotto del pedante studioso svizzero della seconda metà dell’Ottocento Johannn Jakob Bachofen, nella sua versione originale e integrale edita da Einaudi, in due volumi, di oltre 1.300 pagine.
In questo testo, che ebbe una certa fortuna, nonostante la sua pesantezza, tra l’Ottocento e il secolo scorso, si teorizza una contrapposizione tra due diverse morfologie di civiltà, le cui caratteristiche sono state ben sintetizzate da Julius Evola nella prefazione di un condensato del volume di Bachofen, Le madri e la virilità olimpica ripubblicato dalle Edizioni di Ar nel 2009.
Da un lato la civiltà delle Madri, cioè il matriarcato delle società mediterranee preindoeuropee e pregreche, dalla natura tellurico-femminile (Evola usa femminile), dall’idea ctonico-lunare della promiscuità e della estasi orgiastica-comunistica, degli abbandoni dionisiaci e della sregolatezza eterica (da etera).
Dall’altro, all’opposto, il severo e controllato patriarcato, civiltà degli Eroi, olimpico-virile, dall’etica aristocratica e gerarchica della differenza e del diritto positivo, delle successive civiltà indoeuropee.
Chiediamo scusa per questa digressione, che vuole servire alla riconsacrazione del significato “alto” del termine “patriarcato” contro le attualità volgarità e le oscenità.
Detto per inciso, la grande cultura europea – quel che ne resta oggi è assai poco, quasi nulla – si fonda su una visione del mondo, una costruzione sociale basata sul patriarcato, la saggia reggenza dei Padri, dalla sovranità regale in alto fino al principio del pater familias che protegge la famiglia presente e tiene viva la memoria degli avi.
Nessuna resistenza
Con il “patriarcato”, ancora una volta “loro” hanno stravinto la battaglia delle parole. Anzi, a dire il vero la battaglia proprio non c’è stata. Nessuna resistenza è stata opposta.
La sinistra ha caricato il termine “patriarcato” di ogni disvalore possibile, demonizzando il concetto come fonte di sopruso e di morte, imponendo al senso comune e alle mentalità collettive che un ipotetico, oggi quasi inesistente (possiamo aggiungere: purtroppo?), sistema di “governo dei Padri” sia un assoluto male sociale.
E poiché tutti noi pensiamo con le parole, il nostro pensiero viene per così dire obbligato a fare propria l’ideologia e l’interpretazione sottostante al significato imposto alla parola. Si tratta di un meccanismo in parte occulto ma ormai ben rodato.
Un meccanismo che è una conseguenza pianificata della ben nota, feroce, totalitaria egemonia culturale della sinistra: quando tutte, o quasi, le “agenzie datrici di senso”, stampa, televisioni, scuole, università, sono state occupate manu militari dalla sinistra, è facile a questa imporre un certo
significato alle parole. Una falsificazione che è organica a quel sistema della menzogna denunciato da Solženicyn.
Sovraesposizione mediatica
Pochi hanno notato che, a seguito della inusuale, straordinaria, invasiva, irritante enfasi e sovraesposizione mediatica data all’omicidio di Giulia Cecchettin, l’utilizzo del termine “patriarcato” è comparso ovunque, contemporaneamente, sui media, nelle dichiarazioni politiche, nelle manifestazioni femministe, quasi fosse stata una scelta e un’imposizione lessicale e semantica preordinata, preparata, programmata e concordata, come d’altronde la mobilitazione politico-mediatica conseguente al delitto.
Chi ha il potere, soprattutto se totalitario o quasi, ha anche quello di imporre un significato voluto alle parole.
Quando Lewis Carroll ne Attraverso lo specchio, seguito de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, fa incontrare Alice con il buffo personaggio di Humpty Dumpty, il dialogo che ne scaturisce è questo: “Quando io uso una parola” disse Humpty Dumpty con un certo sdegno, “quella significa ciò che io voglio che significhi – né più né meno”. “La questione è” disse Alice, “se lei può costringere le parole a significare così tante cose diverse”. “La questione è”replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – ecco tutto”.
Possiamo definire quello relativo a “patriarcale” l’ennesimo “parolicidio” commesso da “chi comanda”? Se la sinistra delle Erinni si è inventata il “femminicidio”, vero obbrobrio lessicale, linguistico, sociologico e giuridico, anche “parolicidio” dovrebbe avere uno suo spazio nel parlar comune.
Lo stravolgimento di “patriarcale” segue a quella di altre parole, così come l’invenzione di nuovi termini inventati allo scopo di pervertire le mentalità e le credenze comuni.
La neolingua
Una decina di queste “parole armate” della neolingua dei Signori della decivilizzazione (gender, inclusivo/divisivo, islamofobia, negazionismo, omofobia, razzismo, resilienza, sessismo, sostenibile, xenofobia), sono state attentamente e criticamente sezionate in un recente, combattivo libro di Francesco Avanzini: Piccolo dizionario della neolingua. Tutte le rivoluzioni nascono dal linguaggio. Anche Avanzini, parlando della “denominazione, il potere cioè del linguaggio di connotare le cose, di descriverne la realtà”, conferma che “la neolingua […] diventa un metodo di controllo del pensiero, di come le persone interpretano la realtà”.
È la lezione di George Orwell di 1984, talvolta citato, ma mai sufficientemente divulgato e letto, odiato dalla politically correctness: alcune università anglo-americane, come quella di Northampton, ne vietano la lettura in nome della cancel culture.
Ma la sovversione riesce a manipolare le parole, in questo caso i nomi delle persone, anche in un altro modo: semplicemente imponendo di tacerli. Lo scopo è sempre quello di negare la realtà, di cercare d’impedire all’opinione pubblica di conoscerla e di avere, grazie a questa conoscenza, una maggiore consapevolezza politica. I casi a cui ci riferiamo sono accaduti in Francia e in Irlanda, ma sono solo i più recenti.
Negazione della verità
Altri analoghi sono accaduti in Gran Bretagna e in paesi nordici in un non lontano passato. A Crépol, nella Francia rurale, a una festa paesana, come ce ne sono spesso in questo Paese, una gang proveniente da una vicina banlieu è arrivata urlando “accoltelliamo i bianchi” e ha aggredito decine di persone.
Un ragazzino è rimasto ucciso dagli accoltellatori, molti i feriti. Ovviamente l’opinione pubblica ha subito capito di quale etnia fossero gli assassini, anche se i media mainstream, eterodiretti, in nome dall’antirazzismo, dal Ministero degli Interni e dalla polizia, avevano censurato i nomi e la vera origine degli assalitori anti-bianchi.
Di più: oltre al silenzio imposto, le autorità fecero trapelare la menzogna che non si fosse trattato di un’aggressione di magrebini (come poi venne assodato quello che tutti avevano intuito) a danno di francesi (veri, bianchi), ma di “una rissa tra francesi”.
Ovviamente la verità non ha avuto difficoltà a farsi strada, grazie alle testimonianze delle vittime e le mezze ammissioni successive della polizia.
Français de souche
Analogo silenzio venne imposto sul nome dell’assassino armato di pugnale che fece una vittima non tanto tempo fa a Parigi vicino alla Tour Eiffel. Autorità e media si sbracarono immediatamente per far sapere che l’assassino: “E’ francese e nato in Francia”.
Falsificazione palese e ipocrita: in questo Paese vige, purtroppo per i Français de souche, cioè i veri francesi, lo sciagurato ius soli (che gli apologeti della Grande Sostituzione vorrebbero introdurre anche in Italia) e la truffaldina propaganda antirazzista gioca sulla confusione tra cittadinanza ed etnia. Solo successivamente si seppe che il criminale era un musulmano di origine non francese.
Stessa falsificazione attuata dall’immigrazionista ministro dell’Interno Gérard Darmanin il quale, dopo i durissimi scontri nelle banlieu di qualche mese fa, con edifici pubblici, caserme, municipi assaltati e incendiati dagli immigrati di prima, seconda e terza generazione, ebbe il coraggio di dichiarare: “Il 90% dei teppisti è francese, solo il 10% è straniero”.
Ma i francesi, e gli europei, non sono stupidi e il giochino si autodenuncia.
Ormai tutti capiscono che, quando sui nomi dei criminali cala l’omertà dell’antirazzismo, si tratta certamente di stranieri, naturalizzati o no.
Le reazioni popolari
Uguale censura c’è stata sull’aggressione a Dublino di bimbi (uno gravissimo) e genitori davanti a una scuola da parte di un individuo descritto da tutti come “uno straniero” e che solo successivamente venne rivelato essere un algerino naturalizzato.
Di peggio: quando migliaia e migliaia di dublinesi, a seguito di quest’attacco, scesero in piazza contro le violenze degli immigrati e contro i generosi benefici (case, sussidi, agevolazioni varie) concessi dal welfare a favore degli invasori e negati agli irlandesi, la polizia represse con violenza inaudita queste proteste, con manganellature collettive, anche contro donne e anziani, e arresti di massa.
Parlando di queste reazioni dell’opinione pubblica, a Crépol ma non solo, l’intellettuale francese identitario Alain de Benoist ha dichiarato: “Queste reazioni non sono affatto una collera passeggera. Altre ancor più numerose, verranno. Gli abitanti di tutti i Paesi europei reagiscono ormai con sempre più forza alle patologie sociali che derivano dal flusso ininterrotto dell’immigrazione di popolamento.”
La Chiesa
La pervertente manipolazione delle parole, la resa alla violenza verbale della politically correctness è ormai così pervasiva da trovarla anche dove mai avrebbe dovuto penetrare: nella Chiesa.
Tra la lunga serie di stravolgimenti progressivi e continui delle parole della messa, e ci riferiamo ovviamente alla messa postconciliare e modernista, che già manifestava, secondo le ben note parole dei cardinali Bacci e Ottaviani, un “un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa”, quella di sempre, troviamo, oltre ai cambiamenti con preoccupanti implicazioni anche teologiche nel Gloria e nel Padre Nostro, modificata anche la formula del Confiteor, già tormentato, tagliuzzato e contorto nella nuova messa modernista rispetto a quella prevista nella Santa Messa usos antiquior, ove veniva, assai significativamente, ripetuto prima della Comunione.
Resa alla moda dei tempi
La frase: “Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli” è diventata, per imposizione bergoglionesca: “Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle”. Non si tratta solo di un cretinismo liturgico che rappresenta una triste resa alla moda dei tempi e all’ideologia femminista, ma anche di un’offesa alla lingua italiana, ove il plurale maschile include anche le femmine: citiamo dalla Treccani alla voce Fratello: “Nella forma plurale può indicare sia i soli maschi, sia maschi e femmine.”
La violenza alle parole, ai loro significati, ai loro portati ideali, la criminalizzazione di alcune di queste, la falsificazione di altre, l’invenzione di neologismi capaci di manipolare e modificare le mentalità collettive (il caso di “femminicidio” è uno nei più eclatanti, ma non solo) sono l’espressione della contro-cultura del risentimento, della rabbia, dell’odio verso ogni forma di ordine naturale e dei suoi istituti, in primis la famiglia, ma anche di quelle identità profonde, di natura, presenti e rispettate nelle società civilizzate che gli apologeti della decivilizzazione vogliono distruggere.
Quando udiamo o usiamo delle parole, definiamole “sensibili”, dobbiamo essere ben consapevoli del loro significato e del loro portato, per non cadere nelle “parole-trappola” Il loro corretto uso, o il loro voluto e cosciente non uso, deve rappresentare il primo, indispensabile passo per la liberazione dalla violenza dei manipolatori liberal-progressisti che voglio contorcere le nostre coscienze, le nostre sensibilità, la nostra mentalità e quindi la nostra libertà.
Antonio de Felip