Il veleno progressista e lo spopolamento dei territori
I piccoli comuni si spopolano e volgono al declino.
Ma perché accade tutto ciò? Sussistono a monte cause di varia natura: economica e culturale in primis.
Economiche giacché le attività tradizionali (agricoltura, artigianato) sulle quali si reggevano quelle piccole comunità, segnano il passo al cospetto di una società sempre più tecnologica e consumistica.
E un ulteriore colpo mortale inferto a tali realtà giunge dalla globalizzazione, con le invadenti merci cinesi a neutralizzare dal mercato ogni manufatto artigianale.
E che dire della concorrenza sleale (benedetta dalla UE) dei prodotti agricoli di provenienza africana come l’olio di oliva scadente e altri di bassa qualità quali le arance, l’uva, i pomodori e altro.
A tali calamità si aggiunge il cambio di mentalità dei giovani locali.
I ragazzi inurbati
Disarmante la loro repulsione per i lavori agricoli e artigianali: attirati dal successo professionale e dalle sirene del progresso, fuggono verso le città (o all’estero) in cerca di impieghi più sicuri, remunerativi e poco faticosi.
A simile riguardo, chi non ricorda il ragazzo di campagna ben interpretato da Pozzetto in un suo celebre film.
Su quest’ultimo punto si allaccia anche la causa culturale del problema.
Quando eravamo studenti alle medie e superiori, tra i motivi ricorrenti nei programmi di storia e letteratura incombeva la questione meridionale.
Libri come “Cristo si è fermato ad Eboli” fanno da paradigma ideale per illustrare il problema secondo una data chiave di lettura.
In particolare, l’autore Carlo Levi, di estrazione progressista, fissò la morale del romanzo intorno al concetto di arretratezza esistenziale dei contadini Lucani.
La narrativa sembra icastica e suggestiva: muove da un antifascismo al limite del paranoico (eppure il regime amnistiò lo scrittore nel 1936).
Disprezzo della dignità rurale
E soprattutto punta l’indice contro lo stile di vita arcaico di quello spaccato di vita meridionale. L’ebreo-piemontese Levi dal confino simpatizzò per gli autoctoni, li prese anche a cuore, ma servendosene per la sua rappresentazione dualistica.
Ossia, evidenziare la netta dicotomia tra il mondo progredito e quello antico nelle sue intime dinamiche antropologiche.
Beffardo, per giunta, sentir da costui di un Cristo che dimentica e abbandona la sua gente. Lui proprio: espressione vivida di correnti politiche e filosofiche impegnate ad estromettere la cristianità dal consorzio umano.
Che quelle popolazioni meritassero condizioni di vita migliori è indubitato.
Il romanzo rispecchia, per suo conto, una visione deformata del sud e del mondo contadino avvezza a una certa intellighenzia postbellica, infarcita di cultura moderna e cosmopolita.
Conseguenza di questo veleno è aver inculcato ai giovani una forma di autodisprezzo verso sé stessi e la propria condizione.
Alla quale farà seguito la volontà di sradicarsi e migrare altrove.
La Basilicata è l’esempio lampante
Proprio la terra di Basilicata rappresenta la punta di lancia di suddetto fenomeno.
Le cifre demografiche indicano freddamente la tendenza a uno spopolamento molto più angosciante della stessa povertà. Ma è solo la fase estrema di un processo che ha luogo da oltre mezzo secolo: sublimato fin dagli albori dalle cassandre progressiste mediante una retorica insulsa e dilacerante.
Viceversa, i territori rinascono nel segno delle loro originarie vocazioni, che possono serenamente conciliarsi coi ritrovati tecnologici.
Per ripopolare questi luoghi e salvarli dalla desolazione occorre solo vivificarne il tessuto germinando nuove famiglie.
Nonché riaffermare il senso identitario andato perduto, incoraggiare il rientro degli emigrati.
La sola via, questa, per renderlo impermeabile ad ogni altra indebita intrusione.
Mario Pucciarelli
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