Usa 2024: elezioni all’ombra delle guerre – It’s the economy, stupid! fu la celeberrima sentenza di James Carville, consigliere strategico di Bill Clinton per la sua trionfale campagna presidenziale del 1992, vinta contro George H.W.Bush, presidente che usciva dalla vittoriosa guerra del Golfo, guerra che ristabiliva in modo eclatante la supremazia militare americana dopo la pagina nera del Vietnam, regalando a Bush, nel 1991, un clamoroso consenso del 90%, oltre che dalla vittoria americana della Guerra Fredda, con sfaldamento dell’Unione Sovietica avvenuto nello stesso anno.
La questione della politica estera
Gli americani, tradizionalmente, votano per i propri interessi, che concepiscono in via prioritaria secondo l’andamento della propria economia, disinteressandosi a quanto accade nel resto del mondo, le cui sorti delegano senza troppe premure agli specialisti del Dipartimento di Stato e del Pentagono.
Per trovare precedenti in cui fu l’agenda di politica estera ad essere determinante per una elezione presidenziale, bisogna forse ricorrere al precedente del 1968, quando Richard Nixon prometteva di aver un secret plan per l’uscita dal pantano del Vietnam o alle elezioni del 1964, quando Lyndon Johnson giocava sulla paura di un possibile conflitto nucleare in caso di vittoria del rivale Barry Goldwater, espressione dell’anima più radicale e intransigente verso l’URSS dell’allora partito repubblicano.
USA in guerra
A quei tempi, però, si avevano o truppe americane direttamente impegnate in un conflitto già costato all’America decine di migliaia di vite o un’America appena reduce dalle fibrillazioni della crisi dei missili di Cuba, puntati a 90 miglia dalle coste della Florida.
Per quanto, oggi, l’intensità dell’affrontamento internazionale russo-americano sia elevata, con gli USA che foraggiano per decine di miliardi di dollari Kiev al fine di condurre una guerra per procura alla Russia, per quanto la Russia, oggi come ieri, resti la prima potenza mondiale in termini di capacità nucleari, la percezione della guerra in Ucraina presso il pubblico americano è per lo più quella di una guerra regionale, di cui solo scarsamente se ne temono gli esiti possibilmente più catastrofici.
Quanto fa male Gaza a Biden?
Lo stesso dicasi per la guerra a Gaza, per quanto l’America sia ingaggiata con supporto militare e diplomatico ad Israele, la presenza militare americana in Medio Oriente resta ridotta dopo i ritiri da Iraq e Afghanistan.
Detto questo, anche se forse non sarà la politica estera ad essere determinante per le elezioni di novembre, resta che lo scenario con il quale l’amministrazione Biden può presentarsi agli americani e al mondo è francamente disastroso.
Come si muoveva Trump sullo scacchiere mondiale
Donald Trump sicuramente avrà buon gioco a presentare, comparativamente i 4 anni di relativa tranquillità della sua presidenza, apertasi ereditando da Obama da una crisi in corso con la Corea del Nord, risolta tramite un confronto “maschio” e trattative condotte vis-à-vis con Kim, e sviluppatasi senza particolari conflitti a livello internazionale, come un successo.
Il conflitto del Donbass, per quanto mai interrotosi era sostanzialmente congelato, oltre che dimenticato ed ignorato, dalle opinioni pubbliche occidentali.
In Medio Oriente Trump non ha ingaggiato nuove forze americane, lasciando anzi indirettamente mano libera ai russi in Siria per fare il lavoro sporco di ripulitura dell’area dalla diffusione dell’ISIS allora nel suo momento di massima espansione.
Allo scandalo sollevato a livello internazionale dal presunto uso di armi chimiche da parte delle forze siriane di Assad, evento già indicato in precedenza da parte americana come “linea rossa”, Trump reagì con un breve e ridotto intervento missilistico, pare letteralmente telefonato con le forze russe, su alcune basi militari siriane, previamente sgomberate per non subire danni.
All’attivo del candidato ex presidente anche i cosiddetti Accordi di Abramo del 2020, in cui, con la mediazione americana, una serie di paesi arabi (Emirati Arabi, Barhain, Marocco e Sudan) accettavano di normalizzare le proprie relazioni diplomatiche con Israele.
Il nodo cinese
La conflittualità latente con la Cina per la questione di Taiwan e l’eterno rischio di confronto miliare diretto tra le due grandi potenze, sotto Trump, veniva quasi sublimata e risolta in un confronto puramente commerciale, con le varie imposizioni di dazi (prima ipercriticati e poi non revocati da parte dei dem) e di confronti diretti tra le due parti per regolarne i rapporti bilaterali.
Le massime tensioni internazionali, sotto la presidente Trump, si sono avute solamente con l’Iran, con la rescissione degli accordi siglati dagli USA sotto Obama, con mediazione russa ed europea, per consentire all’Iran di sviluppare un nucleare civile ma non militare e l’uccisione del generale Soleimani, due veri e propri atti di banditismo internazionale a stelle e strisce.
Cosa può mostrare Joe Biden?
In primo luogo, l’umiliante fuga da Kubal delle forze americane, scappate in elicottero e con decolli affrettati dalle piste dove si attorniavano i collaboratori del vecchio regime filoccidentale abbandonati a sé stessi lasciati, dopo vent’anni di sanguinosa e fallimentare esperienza militare occidentale, alla mercè dei talebani vittoriosi, i quali facevano anche man bassa di equipaggiamento militare americano per miliardi e miliardi di dollari, abbandonato in loco per uno dei più colossali fallimenti logistici ed organizzativi che l’esercito (e la diplomazia) americana ricordino.
Segue poi la maggior guerra convenzionale dai tempi della Seconda Guerra Mondiale in corso in Europa, con la Russia, Russia che si era promessa di piegare in due settimane con un’inedita furia sanzionatoria che avrebbe dovuto metterne in ginocchio, fino al collasso e alla resa, l’economia.
I trofei a Mosca
La Russia, però non solo resiste ma aumenta stabilmente in potenza, mostra nelle piazze di Mosca come trofei i carri armati Abrams e i blindati Bradley distrutti e catturati sul campo.
La politica sanzionatoria ispirata da Washington, al momento, sembra aver innescato un effetto boomerang, con un rafforzamento del mondo dei BRICS, che si è rifiutato di abbandonare la Russia, l’ingresso di nuovi membri al blocco, tra cui l’Arabia Saudita, che ha anche incominciato a vendere per la prima volta petrolio in yuan, alleata storica degli USA in Medio Oriente e pilastro del sistema del petro-dollaro a livello internazionale, avviando un lento ma pericoloso percorso di riduzione dell’impiego dollaro come valuta di riserva internazionale.
Anche l’Iran ha aderito al blocco dei BRICS, svincolandosi così dall’isolamento che subiva a causa delle sanzioni occidentali.
In particolare, nel mondo dei BRICS, Russia-Cina-Iran sembrano formare uno zoccolo duro mai così coeso, la cui costituzione, per altro, era indicata essere come uno dei principali pericoli per l’egemonia americana da parte di Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter e grande teorico geopolitico di area democratica.
Il nodo ucraino
Per quanto riguarda la politica di porte aperta della NATO per Kiev, sostenuta da Biden – laddove con Trump lo scetticismo della Casa Bianca verso la struttura stessa della NATO era ed è palpabile (alcuni ipotizzano che in caso di secondo mandato Trump avrebbe potuto rivedere radicalmente il ruolo stesso dell’America in senso all’alleanza e che potrebbe farlo ora dopo una vittoria nel 2024) – ha direttamente portato allo scoppio di una guerra di cui non si vede via di uscita.
Jake Sullivan, responsabile della sicurezza nazionale della Casa Bianca e una delle principali eminenze grige che sembrano dirigere il senile presidente Biden, prima della fallita campagna offensiva ucraina della primavera-estate del 2023 prevedeva che Kiev avrebbe dovuto vincere ristabilendo le frontiere del 1991, più recentemente è passato ad obbiettivi ben più modesti, limitandosi ad indicare come “vittoria” la sopravvivenza dell’Ucraina come entità statuale (senza precisarne i confini), libera e democratica.
Probabilmente anche questi obbiettivi, con un po’ di tempo, andranno rivisti.
Intanto, le interviste su X di Tucker Carlson, il popolarissimo giornalista, bandiera della destra oltranzista e bandito da Fox News, a Putin e a Dugin, rafforzano la disaffezione crescente nel mondo repubblicano per la causa di Kiev.
Il recente pacchetto da 61 miliardi di dollari per l’Ucraina (che in realtà si riducano a 38 miliardi, se si considera che 23 miliardi sono destinati a commesse per ripianare le scorte dell’esercito americano), approvato con quasi 6 mesi di ritardo, sembra essere l’ultimo e, fatto alla fine passare dallo speaker Mike Johnson, molto vicino a Trump, a quanto pare solo per evitare un crollo immediato delle forze armate ucraine, cosa di cui i democratici avrebbero potuto accusare polemicamente i repubblicani del Congresso e Trump, riprendendo l’eterno tema del Trump colluso con Mosca.
Che piani ha Trump per l’Ucraina ed il Medio Oriente?
Sulla falsariga di Nixon del 1968, Trump promette di avere un piano di pace per l’Ucraina, capace di porre termine al conflitto in 24 ore, di cui, però, il contenuto non può ovviamente essere rivelato per non incrinarne l’efficace negoziale.
Anche se si guarda al Medio Oriente il disordine sembra totale.
L’azione militare di Hamas del 7 ottobre, che ha arrecato allo stato ebraico una ferita e un senso di vulnerabilità che forse non sentiva dalla guerra dello Yom Kippur del 1973, è stata seguita con una reazione senza quartiere da parte del governo di Benjamin Netanyahu che ha scatenato una sorta di guerra di punizione collettiva dei palestinesi di Gaza (e non solo) con sistematici bombardamenti di civili e mattanze da macelleria messicana.
Sullo sfondo, sempre il rischio di allargamento del conflitto, in particolare con uno scontro diretto Israele-Iran, di cui si è avuto un assaggio a seguito dei lanci di missili e droni iraniani contro Israele come ritorsione all’improvvido bombardamento israeliano della sede diplomatica iraniana a Damasco.
I campus in rivolta
Di fronte a tutto ciò, alle proteste che si vanno diffondendo nelle università americane e per opera dei gruppi dell’estrema sinistra, l’amministrazione Biden si trova in difficoltà: da una parte la Casa Bianca non è affatto intenzionata ad abbandonare Israele, che infatti protegge con l’invio di armi, intercettando i missili iraniani in volo e minacciandone di ritorsioni i potenziali nemici, dall’altro non vuole essere associata con i crimini di guerra, le patenti e ripetute violazioni del diritto internazionale di Israele, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania tramite le colonie illegali costruite sui territori palestinesi e in generale con le azioni del governo più di destra e radicale della storia dello stato ebraico, per non perdere consenso elettorale in patria.
Il rischio, per esempio, che gli elettori di origini arabe-americane, gruppo non numerosissimo negli USA ma concentrato in alcuni stati chiave come il Michigan, potrebbe abbandonare il partito democratico, volgendosi all’astensione o al voto a terzi partiti, è concreto e temuto dalla Casa Bianca.
Di qui certi tentennamenti dell’amministrazione, certi timidi appelli alla moderazione nell’azione miliare rivolti a Israele, certi tentativi diplomatici di Blinken per ottenere tregue e un po’ di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza.
Bombe con una mano, cibo dall’altra.
Posizione difficile da tenere, probabilmente troppo poco per convincere sia gli elettori di simpatie filopalestinesi della bontà delle proprie intenzioni, comunque incapaci di fermare le azioni militari israeliane, sia gli elettori più convintamente filoisraeliani che potrebbero invece subodorare un tradimento latente della causa.
In tutto questo, Trump, denuncia chiaramente il caos internazionale come causato dalla debolezza dell’amministrazione democratica e cerca di riproporsi come l’uomo del “deal”, capace di ottenere e strappare accordi insperati, come già accaduto con il caso Kim e come l’uomo dell’America First, ossia del disimpegno dall’ipertrofico ruolo dell’America sulla scena internazionale e del ripiegamento sull’agenda di politica interna, difesa dei confini e ostilità alle eccessive aperture a livello globale.
Sceglieranno ancora, gli americani posti di fronte all’instabilità, di giocarsi la loro Trump card?
Filippo Deidda
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