Intervista a Claudio Mutti, Direttore della Rivista di geopolitica “Eurasia” – L’equilibrio mondiale è minato da ciò che il Papa ha definito, a più riprese, La Terza guerra mondiale combattuta a pezzi.
Anche oggi – 10 marzo 2024- all’Angelus, Papa Francesco ha invitato a pregare per la pace nella Repubblica Democratica del Congo, in Ucraina e in Terra Santa. Sono circa 60 i conflitti nel mondo attualmente in corso e ulteriori scenari bellici stanno per aprirsi e altri potrebbero scoppiare.
Dato l’odierno disordine mondiale, abbiamo chiesto l’aiuto di Claudio Mutti – Direttore della Rivista di geopolitica “Eurasia”, per fare luce sull’intricata situazione internazionale.
Il settantaquattresimo numero di Eurasia (l’ultimo, per intenderci) – la Rivista di geopolitica da lei diretta – si occupa della Palestina. Vuole svelare il contenuto?
Il volume si apre con un mio articolo che vuole porre in luce lo stretto rapporto esistente fra il mito dell’Olocausto – il più esiziale tra quelli che Roger Garaudy chiamava “i miti di fondazione della politica israeliana” – e l’azione genocida intrapresa in Palestina dagli occupanti sionisti.
Infatti, costoro, proclamandosi vittime “di serie A” di una guerra che ha fatto cinquanta milioni di morti ed imponendo una vera e propria religio holocaustica, grazie alla complicità dell’Occidente americanocentrico, si sono potuti applicare con zelo criminale ad una sistematica eliminazione (sia per espulsione dal territorio sia per soppressione fisica) della popolazione palestinese autoctona.
D’altronde, come spiega un collaboratore iraniano della rivista, Ali Reza Jalali, il sionismo altro non è che un radicale suprematismo etnico-religioso, alimentato da quell’ideologia veterotestamentaria su cui si sofferma un altro redattore, Youssef Hindi. E che il progetto genocida oggi in corso di esecuzione non riguardi solo l’annientamento fisico dei Palestinesi, ma miri anche alla cancellazione della loro storia, lo spiega bene Alessandra Colla, mentre altri autori affrontano l’argomento in una prospettiva storica: dal puritanesimo cristiano-sionista (Stefano Azzali) fino alla lotta del movimento di resistenza islamico noto come Hamas (Daniele Perra), senza trascurare la fase ottomana della storia palestinese (Aldo Braccio).
Di particolare interesse è il saggio di Matteo Marchioni sui rapporti intercorsi fra l’Italia e la Palestina nel corso del Novecento. Alla questione palestinese, cui è dedicato il nucleo centrale di questo numero di “Eurasia”, si riferisce anche un documento di oltre mezzo secolo fa: si tratta del discorso introduttivo tenuto da uno studente siriano nella prima manifestazione a sostegno della Palestina avvenuta in Italia, che ebbe luogo a Padova nel 1969.
A Zurigo, in questi ultimi giorni, un quindicenne svizzero ha accoltellato un ebreo ortodosso di cinquanta anni. Il ragazzo è stato arrestato ed è indagato per il crimine di odio antisemita. Come riporta la cronaca, il quindicenne ha gridato: «Morte a tutti gli ebrei». Il fatto è accaduto nel quartiere dove si concentra la comunità ebraica, il Kreis 2. Com’è la situazione in Svizzera, in relazione all’antisemitismo?
Innanzitutto, mi lasci dire che, data l’origine non semitica della stragrande maggioranza dell’ebraismo mondiale, ritengo del tutto improprio parlare di antisemitismo per indicare l’ostilità nei confronti degli ebrei. Quanto alla Svizzera, dove vive la decima più grande comunità ebraica dell’Europa occidentale (18.000-20.000 individui), si tratta di un Paese che ha avuto un rilievo particolare nella geografia dell’ebraismo.
Non certo perché a Lugano è nata da padre aschenazita la cittadina statunitense (naturalizzata svizzera) Elena Ethel Schlein, detta Elly, quanto perché a partire dal 1897 a Basilea si è tenuto dieci volte, cioè più spesso che in altre città del mondo, il Congresso Sionista Mondiale.
A parte ciò, si ricorderà che una ventina d’anni fa alcuni ebrei statunitensi “miracolosamente scampati all’Olocausto” riuscirono a farsi versare 1,25 miliardi di franchi dalle banche elvetiche, fatto che indusse un consigliere federale a parlare di “ricatto” inteso a destabilizzare la piazza finanziaria svizzera. Da un sondaggio realizzato all’epoca dalla Società Svizzera di Radiotelevisione risultò che metà della popolazione riteneva che le richieste dei “miracolosamente scampati” dovessero essere respinte. Insomma se in Svizzera gli ebrei non godevano di una simpatia unanime, si può immaginare che il genocidio intrapreso in Palestina non abbia contribuito ad aumentarla.
Gli attacchi terroristici degli Houthi sono una grave violazione del diritto internazionale e un attentato alla sicurezza dei traffici marittimi da cui dipende la nostra economia. L’Italia non può farcela a difendersi da sola. Cambiare la nostra idea di difesa dalle fondamenta. Bisogna coordinarsi con gli alleati, partendo dall’Europa: organizzare forze comuni, addestramento, far dialogare sistemi di difesa diversi. Paghiamo un antimilitarismo diffuso: è la dichiarazione del ministro della Difesa Guido Crosetto, a proposito del drone lanciato dallo Yemen e diretto verso la nave Caio Duilio, il cacciatorpediniere della Marina Militare italiana che sarà la base della nascente operazione europea Aspides. Un suo commento?
Aspídes (non àspides) in greco non vuol dire soltanto “scudi” e “reparti armati di scudo”; il vocabolo aspís si trova usato (ad es. in Erodoto e in Menandro) anche per designare la vipera e altri ofidi velenosi. Per via di questa ambiguità, il termine è quanto mai idoneo a indicare una missione (Eunavfor Aspides) che si presenta come difensiva, ma in realtà si inquadra nel sostegno occidentale al regime genocida di Tel Aviv; essa, infatti, si prefigge lo scopo di ostacolare l’azione filopalestinese degli Houthi, intrapresa per colpire le navi commerciali che attraversano il Mar Rosso per dirigersi verso i porti israeliani.
In Romania, Paese di cui si è interessato in numerosi suoi scritti e saggi, i sondaggi indicano una crescita della cosiddetta ultradestra, tra cui AUR, il partito politico di George Simion, che ha partecipato ultimamente alla “Conservative Political Action Conference” negli Stati Uniti, alla presenza di Trump. Simion rivendica la riunificazione della Moldavia con la Romania. Vuole fornirci un quadro complessivo della Romania?
La Romania postcomunista è nata dal colpo di Stato di venticinque anni fa, che, come ritengo di aver documentato in un mio saggio (Colpo di Stato a Bucarest, Genova 2018), aveva lo scopo di trasformare il Paese in una semicolonia economica sottoposta alle richieste del capitale finanziario internazionale, facendone un avamposto dell’Occidente vicino ai confini della Russia.
Così oggi la Romania si trova sotto il saldo controllo militare degli Stati Uniti, che dopo avervi installato le basi di Costanza (US-Navy e US-Air Force) e di Mihail Kogalniceanu (US-Air Force) ne stanno costruendo almeno altre due, anch’esse sul Mar Nero, dirimpetto alla Russia: ad Agigea (US-Navy) e a Babadag (US-Army). Il villaggio di Deveselu, a circa 30 chilometri dalla frontiera bulgara, è sede di un’installazione della NATO, l’Aegis Ashore Missile Defence Site Deveselu.
Che gli esponenti della classe politica romena si rechino con particolare frequenza negli Stati Uniti perciò non deve stupire. Nel dicembre scorso il primo ministro Marcel Ciolacu si è recato in visita ufficiale a Washington, dove ha spiegato che la Romania ha bisogno di un sostegno continuo da parte degli Stati Uniti e della NATO.
Quanto invece alla Conservative Political Action Conference, si tratta del convegno annuale inaugurato da Ronald Reagan nel 1974 e ospitato ad Orlando in Florida dall’American Conservative Union (ACU). Prima del capo di AUR vi si recò (nel 2019, nel 2020 e nel 2022) Giorgia Meloni in rappresentanza dei Brothers of Italy.
Finora l’ex presidente Donald Trump ha vinto tutte le consultazioni del “Grand Old Party” (Partito Repubblicano). Se riuscirà ad ottenere la candidatura e, successivamente, a spuntarla nella corsa alla Casa Bianca, cosa potrebbe cambiare negli equilibri mondiali?
Nel gennaio 2017, quando Donald Trump diventò il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America e tenne alla sede del Congresso un discorso pervaso di retorica patriottica, autarchica ed isolazionista, il 45° numero di “Eurasia” usciva con un mio editoriale intitolato “L’America non si isolerà”.
Difatti non ci fu, né poteva esserci, alcuna politica isolazionista, al contrario. L’ingerenza statunitense proseguì nel Vicino Oriente, dove Trump stracciò l’accordo sul nucleare iraniano, impose durissime sanzioni economiche contro l’Iran, inserì i pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche, ordinò l’assassinio del generale Soleymani e rinsaldò coi cosiddetti “Accordi di Abramo” l’alleanza degli USA coi regimi wahhabita e sionista.
L’ingerenza di Washington proseguì ovviamente anche in Europa, dove fu intensificata la pressione sulle frontiere della Russia attraverso il rafforzamento della presenza militare statunitense in Polonia. Anzi, nel 2017 Trump si recò personalmente a Varsavia per tenere a battesimo la cosiddetta “Iniziativa dei Tre Mari”, avente lo scopo di stringere il cordone sanitario atlantista lungo il confine occidentale della Russia e, in particolare, di colpire l’esportazione di gas russo in Europa (ovviamente per favorire le esportazioni americane di gas naturale liquefatto).
Cosa avverrebbe dunque se Trump tornasse alla Casa Bianca? A mio parere è impossibile immaginare una svolta sostanziale e radicale della politica degli Stati Uniti. Sicuramente un’amministrazione repubblicana sarebbe ancor più apertamente schierata a sostegno del regime sionista nel Vicino Oriente, dove l’Iran continuerebbe ad essere tenuto sotto pressione; contemporaneamente aumenterebbe l’aggressività americana contro la Repubblica Popolare Cinese.
Questa prospettiva di uno spostamento del peso statunitense verso il Pacifico richiederebbe che Trump perseguisse il suo specifico obiettivo: rottura dell’asse Mosca-Pechino e trasformazione della Russia in un paese neutrale, se non addirittura alleato degli Stati Uniti nel “contenimento” della Cina.
In questo contesto, si renderebbe necessario per gli USA rimuovere la principale causa di tensione fra la Russia e l’Occidente americanocentrico, vale a dire, occorrerebbe trovare una soluzione soddisfacente per Mosca nella questione ucraina. In ogni caso, i tempi della piena normalizzazione dei rapporti tra la Russia e i Paesi occidentali sarebbero molto lunghi.
Matteo Pio Impagnatiello
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