La Sinistra necrofila italiana e il tanatomaniaco pensiero imperante del liberismo materialista sfrenato impongono il loro modo riduttivo di vedere l’esistenza – parlare di vita pare proprio eccessivo – in virtù di un diabolico modo di esprimersi, favorito dall’ignoranza della lingua da parte di chi ascolta.
L’ultima frontiera da conquistare e come tale indicata al popolo dal progressismo internazionale, è una legge per la regolamentazione del “fine vita”.
Si sente il solenne – e deresponsabilizzante – burocratismo?
Non suicidio: la violenza contro sé stessi che – ricorda Dante – porta l’uomo laddove “non pomi v’eran, ma stecchi con tosco”.
E nemmeno morte: poiché tremendo è il suono bisillabe che spalanca agli occhi di chiunque la porta dell’ignoto.
No, nulla di tutto ciò, ma fine vita: come fine corsa, come se si viaggiasse in autobus; fine orario, come si stesse in ufficio; fine gioco, quasi si tratti di un’interruzione d’attività tutto sommato superflua.
D’altronde, che la vita finisca, prima o poi, è naturale.
Però, tutto ciò che è naturale e non tradotto – e specialmente tradito – da un’ideologia, oggi appare poco affascinante, banale, non all’altezza di un essere che pretende sempre di scegliere, anzi, a cui la società impone di scegliere.
E quanto possano essere libere le scelte imposte dalla moda, non c’è bisogna neanche di discuterlo!
Quel che è peggio, è che il demonio – magari senza corna e piede caprino, magari senza ali da pipistrello e forcone -, oggi si esprime anche nelle più prestigiose aule della “dea bendata”, dove ormai è di casa e con fare da padrone.
Chi ha letto la sentenza della Consulta n° 242/2019, con cui si dichiara anticostituzionale parte dell’articolo 580, imponendo la legittimità dell’assistenza al suicidio?
Sarebbe esercizio utile, magari riflettendo sulla frase finale con attenzione, laddove parla di “esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Quanti libri bisogna aver letto e quali sofismi occorre padroneggiare per decenni, per discettare così dottamente di “libera scelta” e di “proposito autonomamente formatosi” di una persona “affetta da patologia irreversibile” e afflitta da “sofferenze fisiche intollerabili”.
Si potrà mai essere “schiavi di dolore” indicibile e al contempo pienamente capaci d’intendere e di volere?
Forse, solo in un linguaggio che rende l’ossimoro identico al pleonasmo.
Materia delicata
Ora, sia chiaro: la materia è delicatissima e a chiunque ne sia chiamato a discutere non è concesso – neanche minimamente – l’approccio da tifoso dell’una o dell’altra filosofia.
Men che meno, però, è ammissibile affrontare un argomento tanto decisivo – escatologico direbbe qualcuno – con giochi di parole, con l’abilità dell’azzeccagarbugli, risolvendo il tutto con una minimizzazione dell’intera questione che consenta a ciascuno a suo modo di non sentirsi più responsabile di tanto circa ciò che, alla fine, sarà deciso.
Legge e Politica hanno il diritto e, a volte, il dovere di discutere e di decidere anche della morte e dell’uccidere; purché tengano presente, legislatori e giudici, che di morte si tratta e sulla facoltà d’uccidere si deve legiferare.
E che occorre saper ragionare sul “fine della vita”, per assumere determinazioni necessariamente profonde e tremende, sulla morte.
Non basta elidere la preposizione articolata. Altrimenti, se ci si limitasse alle omissioni grammaticali, sul drammatico confine su cui cammina incerta la dignità della vita in rapporto col dolore e con le sofferenze, non ci sarebbe alcuna norma progressista della Sinistra, ma solo un’ennesima legge sinistra.
Nessuno scordi l’ammonimento del Vangelo, valido anche per il laico, per giudicare le proposte e le soluzioni in materia:
“Sia invece il vostro parlare: Sì Sì, No, No; il di più viene dal Maligno”.
Massimiliano Mazzanti
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