Francesco Cecchin e Paolo di Nella e il pentimento a comando del PCI – Ritrovato privo di conoscenza in fondo a un parapetto alto tre metri, esalando l’ultimo respiro dopo diciannove giorni di coma, il 16 giugno 1979. È così che morì Francesco Cecchin Francesco Cecchin e Paolo di Nella e il pentimento a comando del PCIa soli 19 anni.
Ma perché un ragazzo così giovane subì una fine così atroce?
Andiamo alla sera del 28 maggio, quando il ragazzo, intento ad affiggere manifesti del Fronte della Gioventù con altri quattro amici, venne coinvolto in un’accesa discussione con un gruppo di attivisti della sezione del PCI di via Montebuono.
Secondo la versione dei missini, i comunisti avevano completamente ricoperto i tabelloni elettorali e li avrebbero sorpresi mentre si riprendevano gli spazi.
Secondo i comunisti, invece, sarebbero stati proprio i loro manifesti a essere strappati, per questo motivo si fecero avanti per impedire ai missini di affiggere i propri, facendo scoppiare così una violenta lite, nel corso della quale, l’allora segretario della sezione del PCI, Sante Moretti, avrebbe minacciato Cecchin.
Una minaccia che negherà parecchi anni dopo in un’intervista.
Seguito in auto dai suoi assassini
La sera stessa Cecchin, uscito con la sorella e un amico per andare a cena fuori, si ritrovò inseguito da due passeggeri scesi da una Fiat 850 che, insieme agli altri a bordo, lo avevano riconosciuto.
La sorella e l’amico, rimasti separati da lui, avvertirono subito la polizia del fatto.
Un inseguimento che finì con la morte del diciannovenne.
Per molto tempo, da più parti, si tentò di avallare la tesi della morte del giovane per caduta accidentale dal parapetto del cortile e, solo più tardi, fu acclarato che, invece, si trattò di omicidio volontario il cui movente fu la disputa sui manifesti.
La dura reazione dei NAR
La morte del giovane missino fu vendicata la sera stessa, quando due bombe a mano SRCM Mod. 35 furono lanciate dentro una sezione del PCI, ferendo 24 persone.
L’attacco, infatti, fu rivendicato con una telefonata anonima dei Nuclei Armati Rivoluzionari e, con un volantino, emisero una sentenza di morte all’indirizzo di Sante Moretti.
Per la questione dell’automobile fu indagato il militante comunista Stefano Marozza.
Quest’ultimo ammise di aver preso parte alla lite scoppiata in piazza Vescovio per i manifesti e che risultava proprietario di una Fiat 850 bianca come quella dalla quale scesero gli aggressori.
Incongruenze negli alibi
Il suo alibi crollò dopo una serie di incongruenze, come l’aver passato la serata al cinema Ariel con un amico per vedere il film Il vizietto, ma fu smentito dall’amico stesso, per di più il film in proiezione non risultò quello indicato.
Inoltre, secondo alcune testimonianze, la vettura si trovava nel luogo dell’agguato ancora alle 23.40 mentre Marozza sosteneva di essersi allontanato in macchina alle 21.30.
Una situazione che portò l’arresto di quest’ultimo il 1º luglio 1979 con l’accusa di concorso in omicidio.
Durante il processo sorsero anche perplessità sul lavoro svolto dai periti. Veramente grave e singolare appare pertanto che i periti non abbiano approfondito l’indagine, non si siano recati sul terrazzo dell’abitazione degli Ottaviani, ma semplicemente si siano limitati a dare un’occhiata dall’alto del ballatoio; e abbiano dato una “scorsa” altrettanto superficiale ai rilievi effettuati dalla polizia scientifica, come dichiarato dal professor Umani Ronchi all’udienza del 20 dicembre 1980. Altrettanto singolare che non abbiano tenuto in alcun conto i referti dell’ospedale San Giovanni.
Questo quanto sostenuto dalla Corte d’Assise.
Nella Sentenza della Corte d’Assise di Roma del 23 gennaio 1981 fu ribadito che Cecchin venne aggredito e scaraventato giù dal muretto (forse già svenuto) col chiaro intento di essere ucciso. È convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario.
Non fu individuato nessun colpevole, in quanto il processo assolse l’unico imputato, precisando che il mancato accertamento delle responsabilità era causato da una serie di gravi negligenze nelle indagini ed ipotizzando, senza peraltro darne poi seguito, eventuali responsabilità degli inquirenti.
Appare incomprensibile la mancanza di ogni attività investigativa nell’ambito degli appartenenti alla fazione politica opposta a quella della vittima… La mancanza di prove in ordine al crimine commesso è con tutta probabilità da connettere a una estrema lacunosità delle indagini sotto i profili qualitativo, quantitativo e temporale. (Dalla sentenza del 23 gennaio 1981).
Paolo di Nella l’ultima vittima di una lunga serie
A proposito di volantinaggio, che poi degenerò nel sangue, da ricordare l’ultima vittima missina degli anni di piombo, Paolo di Nella, un militante diciannovenne del Fronte della Gioventù, morto il 9 febbraio 1983.
Tutto iniziò in occasione di una raccolta firme ed una campagna di affissioni, in quanto sarebbe partita una nuova iniziativa politica del Fronte della Gioventù nel quartiere Trieste-Salario parte della campagna, per l’acquisizione pubblica di Villa Chigi, una villa del Settecento con annesso parco, al fine di renderla un centro socio-culturale.
Nel pomeriggio del 2 febbraio, la prima affissione fu interrotta sul nascere da un controllo dei carabinieri, che ne impedirono il proseguimento.
Di Nella, però, non si diede per vinto, decidendo così di ripetere l’affissione in serata, verso le 22:00, accompagnato dall’amica, Daniela Bertani.
Sorpreso durante un attacchinaggio
Il giovane missino attaccò molti manifesti nella zona ma, durante le affissioni, un motorino con due persone a bordo era passato più e più volte.
Alle ore 00:45, Di Nella scese dalla sua auto per affiggere dei manifesti su un tabellone al centro della strada, mentre Daniela Bertani lo aspettava in auto.
Nel frattempo, due giovani erano apparentemente (visto che a quell’ora gli autobus non passavano più) in attesa di un autobus alla fermata ATAC della linea 38.
Secondo quanto riportato dalla Digos, Di Nella fu colpito da uno dei due, che gli si era avvicinato senza parlare, sferrandogli un solo colpo alla tempia con un oggetto contundente, probabilmente un grosso manganello o una spranga di ferro.
Commessa l’aggressione i due si diedero alla fuga a piedi.
Il diciannovenne si piegò sulle gambe ma si rialzò subito con una ferita sanguinante dietro l’orecchio.
L’agonia a notte fonda
Il giovane negò all’ amica di stare male e si limitò a sciacquare la ferita in una fontanella e farsi dare dei fazzoletti per tamponare l’emorragia.
Di Nella si fece riaccompagnare a casa dalla ragazza, facendole promettere che non avrebbe raccontato a nessuno quanto successo.
Rientrato a casa, in corso Trieste, verso l’una e mezza, si lavò i capelli, poi si sdraiò nella camera della sorella.
Ma, a notte fonda, i genitori furono svegliati dai suoi lamenti e il ragazzo chiese una borsa per il ghiaccio, riferendo alla madre di rischiare il trauma cranico, a quel punto venne chiamato il medico di famiglia che ne dispose il ricovero e l’ambulanza lo trasportò al Policlinico Umberto I, dove arrivò alle ore 4:00 già in coma.
Dal giorno dopo i suoi amici lo vegliarono per sette giorni nella corsia del nosocomio.
Una violenza vile ed efferata che coinvolse anche il mondo politico, a partire dal Sindaco di Roma, Ugo Vetere che, durante la degenza, il 4 febbraio, corse in ospedale e condannò l’accaduto; il 5 febbraio fu la volta del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che si recò in visita privata a trovare Di Nella in ospedale, ricevendo una notizia tremenda: il coma era irreversibile.
Un’agonia che finì il 9 febbraio alle 20:05, quando Di Nella morì senza avere mai ripreso conoscenza.
Il messaggio del PCI
Una morte che indignò anche la parte avversaria. Infatti, il PCI manifestò vicinanza alla famiglia del ragazzo.
La morte del vostro giovanissimo Paolo, vittima di un’aggressione disumana, che ha scosso e sdegnato ogni coscienza civile, suscita anche il commosso compianto dei comunisti. Vi preghiamo di accogliere le nostre condoglianze e la nostra solidarietà. Enrico Berlinguer
Questo il telegramma inviato dal segretario del PCI ai familiari della vittima.
Il 14 febbraio, Autonomia Operaia rivendicò l’agguato in un volantino, ritrovato in una cabina telefonica proprio a piazza Gondar dopo una telefonata anonima al 113.
La fuga dei carnefici
Tra i sospettati finirono Corrado Quarra e Luca Baldassarre, militanti di Autonomia Operaia della zona. I due, accortisi di essere controllati, si resero irreperibili, fuggendo a un primo arresto.
Quarra fu poi fermato il 2 agosto 1983, in un normale posto di controllo a Roma, in piazza Risorgimento.
Il 4 agosto Daniela Bertani riconobbe Quarra nel confronto come la persona che avrebbe colpito Di Nella alla testa.
Il sostituto procuratore Santacroce emise un mandato di cattura e il tribunale della libertà convalidò l’arresto. La Bertani fu riconvocata per un secondo riconoscimento il 4 novembre 1983, ma sbagliò il riconoscimento del secondo indiziato, Luca Baldassarre, ponendo di fatto fine all’indagine. Il giudice ritenne infatti che, avendo sbagliato il secondo riconoscimento, avrebbe potuto aver sbagliato anche il primo. Il 29 dicembre il giudice istruttore Vitaliano Calabria, firmò l’ordine di scarcerazione di Corrado Quarra. Le indagini furono chiuse il 21 aprile 1986 con il proscioglimento di Quarra.
Ancora una vittima missina senza colpevoli
Vittime che, magari, si sarebbero potute evitare se si fossero applicate le parole di Giuliano Ferrara che, il 6 febbraio, scrisse su Repubblica: Abbiamo i titoli per dire che per noi questa non è la morte di un fascista, ma la morte di un uomo. E di più: di dire che se questo scelse di dirsi fascista e concepì per la sua vita futura di vivere da fascista, ebbene, aveva il diritto di scegliere e di vivere così.
Nemes Sicari
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