Lo stato sardo agli albori: la Corona Aragonese e lo stato pattizio di Sardegna – A partire dal primo decennio del 1300 la Sardegna fu progressivamente unificata tramite spedizioni militari dalla Corona Aragonese di Spagna, che rese l’isola quello che si usa chiamare un’unione personale a detto istituto monarchico, riservandosi di gestirlo in maniera autonoma rispetto ad altri suoi territori sottoposti alla sua autorità.
Il potere legislativo era dato a un parlamento chiamato stamenti rappresentante il clero, la nobiltà, cioè la signoria fondiaria, e i rappresentanti delle città.
L’anomalia sarda
A ognuno di questi settori della società venivano riservati dei privilegi, secondo il territorio e lo stato sociale ricoperto: sostanzialmente, il potere ecclesiastico e quello fondiario(quest’ ultimo rappresentante le forze militari, in quanto, di norma, la aristocrazia fondiaria rappresentava quelle che erano le forze armate, esprimendone i capi in un orgoglioso spirito di casta) si legittimavano a vicenda secondo la vecchia tradizione dell’alleanza di trono e altare, e finivano, nelle loro funzioni, col limitare il potere della corona.
In Sardegna si assiste di fatto a un fenomeno unico nel suo genere, in quel periodo: laddove si formavano in altri stati le monarchie feudali la Chiesa, comprese le semplici parrocchie, tendevano a limitare i tentativi centralistici della Corona, rappresentate da un governatore o dal viceré.
Il limite all’azione della corona era posto nella cornice di norme a cui il governo doveva, in questa concezione, sottostare.
L’importanza del clero per il tessuto sociale
Lo stesso clero interveniva nella vita dei sardi avendo una sorta di potere di mediazione nei conflitti, mitigando certi usi e consuetudini, come quello del codice della vendetta sardo, tramandato nelle famiglie, e sopravvissuto al periodo dei giudicati (periodo di cui parleremo in un articolo a parte).
Le istituzioni ecclesiastiche si occupavano poi anche di istruire nel limite del possibile i vari strati della popolazione, avendo quasi il monopolio della cultura.
Vi erano poi i cittadini, che godevano di una posizione particolare nelle città, appunto: questi avevano il monopolio delle professioni liberali, trattandosi del primo embrione di borghesia, e sottostavano a particolari normative e franchigie.
Gli agricoltori, sebbene fossero sottoposti a queste classi politiche e dirigenti, all’interno del loro ceto sociale e territorio in cui erano insediati, avevano anche essi particolari garanzie, come quelle per diritto a una parte di terre comuni amministrate con un certo grado di autonomia.
Una comunione di intenti irripetibile
Sebbene questi ceti e questi territori potessero di norma entrare in conflitto per cose di interesse generale, come approvare o meno nuove tasse decise dalla Corona o dal governatore, hanno sempre mostrato un fronte comune: agli stamenti, eletti tra i capi del clero, delle consorterie nobiliari e delle corporazioni di tutti i territori, avevano il diritto di ultima parola vincolante, e sebbene la corona e i suoi delegati fossero i titolari del potere esecutivo, dovettero sempre scendere a patti coi sudditi.
Questo sistema di accordi è sempre avvenuto sia a livello centrale che locale, dando vita alla inedita forma di stato pattizio.
Col passare del tempo, tuttavia tra e guerre con potenze estere e una via via sempre crescente prepotenza delle classi dominanti, il tessuto sociale di sclerotizzò, e i contadini liberi scomparvero, lasciando il posto allo sfruttamento indiscriminato del territorio e degli uomini, divenuti in maggior parte servi della gleba.
La corona aragonese fu incapace di fare da garante sociale per tutti.
Finisce così una esperienza di stato quale raramente se ne erano viste. L’esperienza si chiude nel 1720, con l’arrivo della Dinastia Sabauda, che portò un assetto statutario differente e mutuato all’esperienza piemontese.
Cristian Pillitu
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