Il corporativismo – Proponiamo ai nostri lettori una densa analisi dei modelli corporativi e ringraziamo l’autore Franco Brogioli per averci concesso di pubblicare il suo lavoro.
Nell’articolo 1 dello statuto del Movimento Sociale Italiano si proponeva la realizzazione dello Stato Nazionale del Lavoro, per il raggiungimento – mediante l’alternativa corporativa – dei più vasti traguardi di giustizia sociale e di elevazione umana, nel rispetto della libertà per tutti e nell’armonia dell’ordine con la libertà.
Ovviamente per tutti i fascisti, lo Stato corporativo, e più in generale il corporativismo, hanno un importante significato ideale che non è lontanamente paragonabile all’accezione che il termine “corporativo” ha assunto nel lessico della piccola politica italiana odierna, dove esso è utilizzato in senso dispregiativo e sinonimo di lobby, interesse egoistico e settario di una particolare categoria professionale o produttiva.
Cenni storici
Nell’antica Roma i collegi e i sodalizi erano formati da persone associate da comuni funzioni, arti o mestieri, a difesa dei propri interessi, sotto la protezione d’una divinità tutelare, erano una sorta di corporazione o, se si preferisce, di sindacato.
La corporazione medievale era il momento di aggregazione e di partecipazione dei lavoratori, artigiani e garzoni di bottega, alla vita pubblica della loro città per far valere le loro legittime aspirazioni di riconoscimento professionale ed economico.
Solo alla fine del XIX secolo e poi agli albori del XX, il corporativismo ritorna in auge, prima con la dottrina sociale della Chiesa cattolica esposta nell’enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII del 1892, ispirata al solidarismo cristiano finalizzata alla costituzione di corporazioni di arti e mestieri miste di padroni e operai con il fine di unire le due classi tra di loro.
Poi l’idea corporativa fu portata avanti in modo più energico e determinato ad opera del movimento fascista, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale.
In verità troviamo tracce di corporativismo già nella Carta del Carnaro, anticipazione della Carta del Lavoro del 1927, promulgata dallo Stato libero di Fiume nel 1920, ad opera dei legionari dannunziani.
Invece, nel primissimo programma dei Fasci Italiani di Combattimento approvato a piazza San Sepolcro a Milano il 23 marzo 1919 con il contributo fondamentale dei sindacalisti rivoluzionari, tra cui è possibile ricordare Michele Bianchi, Filippo Corridoni, Alceste De Ambris, Sergio Panunzio ed Edmondo Rossoni, abbiamo le prime richieste di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese che poi avranno la sua compiuta attuazione con il decreto legge sulla socializzazione delle imprese del 12 febbraio 1944, idea-forza della Repubblica Sociale Italiana, a sua volta anticipato dal punto 12 del Manifesto di Verona del 14 novembre 1943, quando si tenne il primo e unico congresso del Partito Fascista Repubblicano.
Alcuni esponenti del sindacalismo rivoluzionario si spostarono poi sulle tesi di quello nazionale e, nel 1922, si costituì il Consiglio nazionale delle corporazioni sindacali che diede luogo al sindacalismo fascista.
Il dopoguerra
Nel secondo dopoguerra il sindacalismo nazionale ritrovò forza con la costituzione nel 1950 a Napoli della C.I.S.NA.L., confluita nel 1996 nell’Unione Generale del Lavoro.
Con la socializzazione, oltre alla ripartizione degli utili d’impresa tra i lavoratori, si attua il principio di responsabilità degli stessi (operai, tecnici, impiegati, quadri) che di fatto diventano solidali nel buon andamento dell’azienda alle cui strategie decisionali sono chiamati a partecipare.
I fondamenti teorici del corporativismo si basano su una concezione classica della filosofia in antitesi a quella dialettica che darà origine da un lato al liberalismo, propugnatore di una concezione della società atomistica e individualistica, in cui i diritti del singolo prevaricano su quelli della comunità, e dall’altro lato al comunismo marxista in cui lo Stato collettivista soffoca ogni aspirazione alla libera impresa del singolo individuo, imponendo la sua presenza onnicomprensiva e asfissiante.
Il corporativismo fascista (e degli altri Stati europei che lo adottarono, tra cui la Spagna di Francisco Franco e il Portogallo di Antònio Oliveira de Salazar, ma fu attuato anche in Brasile da Getùlio Vargas) parte dal presupposto di considerare la Nazione e la comunità degli individui che hanno un retroterra culturale comune (lingua, costumi, tradizioni, storia, stirpe), organizzata in Stato, come l’interesse supremo da difendere al di là dalla lotta di classe marxista e dall’egocentrismo liberale le cui urgenze sono in contrasto con il bene nazionale.
Entrambe queste ideologie possono essere considerate a giusta ragione anticorporative poiché espressioni di esigenze particolaristiche estranee ad una concezione sociale e nazionale dello Stato, e a una visione spirituale dell’uomo, per la quale non è sufficiente il soddisfacimento dei soli bisogni materiali.
Ugo Spirito
Da ricordare l’intuizione, definita da alcuni critici para-comunista, di Ugo Spirito che al II Convegno di studi sindacali e corporativi del maggio 1932, tenutosi a Ferrara, in cui il filosofo aretino propose la tesi della corporazione proprietaria, da intendersi come la trasformazione della società anonima di capitali in corporazione, passando cioè dallo status giuridico di azienda privata a quello di istituto di diritto pubblico, in modo da costringere il capitale a uscire dal circuito decisionale per essere relegato in quello esterno della semplice partecipazione all’utile.
Quindi questo mutamento rivoluzionario doveva avere due conseguenze:
- Passaggio del capitale dagli azionisti ai lavoratori dell’impresa.
- Trasferimento dei mezzi di produzione dall’azienda, e quindi della proprietà della stessa, alla corporazione.
Perciò il lavoratore diventa il vero protagonista dell’azienda nella quale tutti quelli che svolgono un’attività produttiva diventano soci e secondo lo stesso Spirito il capitale passa dalle mani degli azionisti a quello dei lavoratori che diventano: “Proprietari della corporazione per la parte loro spettante in conformità dei particolari gradi gerarchici”.
La proposta rientrava quindi nella collaborazione fra le categorie sociali e se da un lato avesse eliminato la distinzione tra datore di lavoro e lavoratore, dall’altra avrebbe reso pubblica la proprietà secondo i principi dello Stato etico gentiliano. Come è noto, secondo il filosofo di Castelvetrano l’individuo si doveva fondere nello Stato.
La corporazione proprietaria attuava e si spingeva oltre il punto VII della Carta del Lavoro, nella quale “lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione. L’organizzazione privata della produzione, essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato.
Dalla collaborazione delle forze produttive deriva fra esse reciprocità di diritti e doveri, il prestatore d’opera, tecnico, impiegato o operaio è un collaboratore attivo dell’impresa economica, la direzione della quale spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità”.
Per Spirito: “…la soluzione logica appare quella della ‘corporazione proprietaria’ e dei corporati azionisti della corporazione. È una soluzione che, almeno sulla carta, risolve le antinomie … unisce il capitale e il lavoro, elimina il sistema dualistico, fonde l’azienda con la corporazione e infine consente una effettiva immedesimazione della vita economica individuale con quella statale”.
La sinistra fascista di fronte a tale proposta si presentò divisa in due schieramenti: da una parte i corporativisti teorici, che oltre lo stesso Spirito vedevano tra le loro fila Arnaldo Volpicelli e Nello Quilici, e dall’altra parte i pragmatici, cioè i sindacalisti Luigi Razza, Pietro Capoferri, Agostino Lanzillo e altri.
Benito Mussolini fu entusiasta della proposta di Spirito, eliminando ogni estremizzazione comunista del fascismo fatta da parte borghese, come si può leggere in un suo articolo su Il Popolo d’Italia: “Spirito … supera le opposte posizioni dell’economia liberale e dell’economia socialista e spiega anche il suo punto di vista circa l’identità fra individuo e Stato, tesi che non merita i vade retro scandalizzati di molta gente che non comprende e quindi detesta ogni filosofico ragionare. Le tesi di Spirito non ci sembrano poi eccessivamente lontane dalla più pura ortodossia dottrinale …”.
Il corporativismo unitamente alla socializzazione costituisce un vero e proprio sistema di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori sia nelle istituzioni politiche, sia in quelle economiche in opposizione alla liberaldemocrazia attualmente predominante, giacché essa con il solo sistema di rappresentanza dei partiti non dà al popolo un reale potere decisionale affidato a congreghe affaristiche più o meno occulte e di difficile controllo da parte dello Stato.
L’intervento pubblico è contemplato dalla socializzazione in occasione di aziende che per le loro dimensioni abbiano un’importante funzione sociale, nel caso che esse siano in difficoltà economiche; nella Repubblica Sociale Italiana l’imprenditore rispondeva direttamente al Capo dello Stato del suo operato e poteva essere sostituito nelle sue funzioni da un commissario nel caso egli fosse ritenuto incapace e responsabile del cattivo andamento della propria impresa.
L’articolo 46 della Costituzione della Repubblica Italiana, mai attuato, afferma che: “ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
E ciò non è forse quello che il fascismo repubblicano e del ‘19 suggerivano di realizzare attraverso i loro programmi e le sue leggi?
La Germania durante il nazionalsocialismo aveva copiato il modello corporativista attraverso il Deutsche Arbeifront (Fronte Tedesco del Lavoro) e nelle parole di Hitler doveva superare la lotta di classe e l’antagonismo tra datore di lavoro e operaio salariato, adotta un’economia sociale di mercato e ha introdotto dal 1976 il principio della cogestione (mitbestimmung), anche se era già presente dal 1951 nei settori dell’acciaio, carbone e miniere, e fu istituita dal governo socialdemocratico di Helmut Schmidt.
La gestione delle aziende tedesche è affidata a due organi: un Consiglio Esecutivo e un Consiglio di Sorveglianza. I lavoratori avevano diritto di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di Sorveglianza. La restante metà e il Presidente sono eletti dall’Assemblea degli Azionisti.
Per le delibere del Consiglio di Sorveglianza, il voto del Presidente vale doppio in caso di parità degli esiti elettorali.
Il German Works Constitution Act del 1952 che è ancora oggi alla base del diritto di informazione, consultazione e cogestione, e stabilisce che in tutti i settori nelle aziende con più di 500 dipendenti spetti ai rappresentanti dei lavoratori un terzo dei seggi nel Consiglio di Sorveglianza.
Nel 1976, una nuova legge sulla cogestione stabilisce la parità dei seggi fra azionisti e sindacato nelle aziende con più di 2.000 dipendenti. In caso di parità dei voti in consiglio, prevale il voto dei rappresentanti degli azionisti.
Gli accordi fra le parti sociali sono vincolanti ed esigibili per via giudiziale, la politica generalmente non entra nel merito delle condizioni della forza-lavoro e delle tematiche riservate dalla legge alla cogestione fra le parti.
I lavoratori eleggono i consigli di fabbrica a scrutinio segreto ogni 4 anni. Formalmente sono organi indipendenti dal sindacato, e hanno competenze dirette nella gestione del personale: assunzioni, licenziamenti, contratti temporanei e flessibilità di orario individuale.
Il modello tedesco è stato successivamente importato in altre nazioni europee, tra cui i Paesi Bassi e la Repubblica Ceca.
Si può quindi affermare che le idee rivoluzionarie partorite dal fascismo sin dalle sue origini hanno trovato delle applicazioni reali e concrete, se non in Italia, in altre nazioni europee.
Franco Brogioli
Bibliografia:
Gaetano Rasi, Franco Tamassia con il contributo di Lino di Stefano e Marzio Narici,
Fondamenti di Corporativismo, ISC, Roma, 1990.
Benito Mussolini e Giovanni Gentile, La dottrina del fascismo e i documenti ufficiali dal 1919
al 1945, Passaggio al Bosco, 2019.
Costituzione della Repubblica Italiana, Presidenza del Consiglio, 1988.