Se la legge è uguale per tutti, non tutti sono uguali per la legge!
La scarsa simpatia per l’attuale percorso politico di Roberto Fiore, oppure l’antipatia tout court per le posizioni e gli atteggiamenti di Giuliano Castellino, non impediscono certo di valutare appieno la sentenza che li ha colpiti come una sassata per i noti fatti di Roma, per quella pseudo-invasione della sede della Cgil, aggravata da quella che è stata definita nell’aula del tribunale come una “devastazione”.
Un termine, quest’ultimo, che se è lo stesso che si usa per ciò che si vede nelle strade di Gaza, oppure in uno dei paesi ai confini tra Russia e Ucraina, ma anche per uno dei comuni romagnoli recentemente colpiti dall’alluvione, non si capisce bene come possa essere correttamente attagliato per gli uffici sindacali visti nelle riprese che hanno fatto il giro delle televisioni e del web per settimane e mesi.
Non solo, questo, però.
Se Fiore, Castellino e gli altri fossero stati certamente da sanzionare, per gli eccessi della manifestazione che li avrebbe visti partecipi e protagonisti di azioni configurate come reati nel Codice penale; si fa fatica a comprendere come, per esempio, la misura di detta pena sia di soli 5 anni inferiore a quella comminata all’assassino della ragazza pakistana che è stata bestialmente strangolata a mani nude.
Ora, che i computer degli uffici della Cgil siano costosi anche se usati, oppure che le stampe alle pareti siano preziosissime, non lo vuol negare nessuno; ma che valgano poco di meno addirittura della vita di una giovane donna… suvvia!
Eppure, questa è la realtà dei fatti: 8 anni e mezzo ai “devastatori”, contro i 14 comminati all’omicida.
Se questa non è un’onta del “sistema giustizia”, dicano altri come diversamente commentarla. Anche perché la condanna di Fiore e Castellino in queste modalità, seppur si tratti di una sentenza ancora da rivedere due volte, tradisce doppiamente la inaccettabile natura squisitamente soggettiva del Diritto ormai vigente in Italia.
Diritto soggettivo
Soggettivo, in primo luogo, perché lo stesso fatto, sempre più spesso, è considerato reato a Bologna, ma non a Mantova, a Roma, ma non a Torino, là sì e qua no.
In secondo luogo, perché è palese che gli stessi reati, quando vengono consumati in un contesto politico, vengono contestati e sanzionati a seconda della fede politica dell’imputato da parte di una frangia non indifferente della magistratura.
Come ha di recente illustrato qualcuno, la stragrande parte delle violenze politiche compiute in Italia nell’ultimo decennio sono state opera di elementi dell’estrema sinistra, di appartenenti alla galassia indistinta dei “centri sociali” e dell’area anarco-insurrezionalista.
Si parla di centinaia di aggressione ad avversari politici, anche famosi o con cariche istituzionali importanti; cortei e manifestazioni non autorizzati; devastazioni di arredi urbani, palazzi e altri genere di beni pubblici e privati; occupazioni di stabili di qualsiasi tipo; resistenza e lesioni a pubblici ufficiali e non pochi attentati veri e propri.
Tranne che nei casi eclatanti di quest’ultima specie, qualcuno è in grado di citare una sentenza analoga a quella appena emessa a Roma?
Non solo, infatti, spesso non si è indagato, quando la violenza è stata “rossa” anche in episodi tremendi, basti pensare alla tentata strage di Bologna del giugno 2009; ma nella quasi totalità dei casi meno gravi, le condanne colpiscono i militanti della Sinistra extraparlamentare in modo lieve e col primo verdetto a una distanza tale dai fatti contestati da rendere quasi scontata la prescrizione. Oppure, in una molteplicità di altri episodi, con riduzioni delle pene in secondo e terzo grado tali da rendere, di fatto, impuniti i reati compiuti.
Impuniti
D’altro canto, quando i processi hanno anche una dimensione politica, i militanti della Sinistra sanno di poter sperare nell’interpretazione indulgente di una parte della magistratura che è sfacciatamente associata per ragioni ideologiche.
Una parte di giudici e procuratori che, dal 1964, non a caso nella Bologna allora “patria del comunismo” occidentale, decise di costituire una corrente in senso alla magistratura italiana, crescendo costantemente nel numero di associati e nel peso specifico all’interno degli organi di rappresentanza e autogoverno della giustizia.
Una parte di magistratura che, da tempo immemorabile ormai, non è più solo un insieme di soggetti legati tra loro per ragioni di natura “sindacale”; bensì costituisce una sorta di “scuola” o “filosofia” del Diritto che è chiaramente condizionata dall’ideologia dei fondatori originari, ma che ormai condiziona anche elementi che, magari, formalmente, nemmeno aderiscono più a quell’associazione.
Non sottovalutare
La così detta “destra di governo” commette un errore madornale, si sarebbe tentati di scrivere: compie un peccato mortale, nell’apprendere e nel (non) commentare con estrema superficialità e leggerezza sentenze come quella che si sta valutando in questa sede.
Da episodi come questi, infatti e nella precisa comparazione con le differenti valutazioni di casi analoghi, ma con protagonisti differenti, dovrebbe prendere spunto e avviarsi una profonda riforma del sistema giudiziario.
L’Italia, infatti, ha bisogno non tanto o non solo di giudici “autonomi” – specialmente, poi, se questa definizione assume i connotati che aveva tra la metà degli anni ’70 e quella del decennio successivo nel linguaggio politico -, bensì di magistrati “imparziali” e che diano sempre la sensazione di agire in ossequio a questo sacro principio.
Altrimenti, la giustizia continuerà a soffrire nel nostro Paese di quel male che, agli inizi degli anni ’80, proprio “Magistratura democratica” denunciava con un abile slogan: se la legge è uguale per tutti, non tutti sono uguali per la legge!
E tutto ciò non va bene. Non va bene per niente.