Che te lo dico a fare? Così sbottava in dialetto mia nonna, dopo aver constatato che parole, consigli e insegnamenti non avevano per nulla scalfito il nipote preferito.
Subito dopo, con aria offesa, si chiudeva nella sua stanza.
Allora ne ridevo, adesso, a distanza di oltre mezzo secolo, la capisco: tutti i tempi vengono, un’altra delle sue perle.
Che te lo dico a fare, amico lettore?
Soprattutto, che cosa resta in questo mondo capovolto, dell’impegno tenace, disperato, di chi conduce a mani nude una battaglia di idee e principi destinata all’ indifferenza?
Perché lottare, ognuno con le forze e le armi che ha – le mie sono una tastiera e la clemenza di chi legge- se nulla cambia, o meglio, tutto cambia nella direzione opposta a quella che in coscienza ci sembra giusta?
Meglio godersi il sole d’inverno, il tepore della passeggiata di Nervi, mattoni rossi sul mare, di sotto la scogliera, dietro la meraviglia verde dei parchi.
Meglio ringraziare Dio di un altro giorno di vita e salute.
Per il resto, fate voi, passo il testimone. Io sono prossimo al ritiro per incompatibilità ambientale. Divorzio dal mio tempo per crudeltà mentale.
La mia, ovvio, poiché non resta che una conclusione: ho torto.
Ma che ve lo dico a fare, lo sapete già.
Gli ubriachi dicono che a fregarli è stato l’ultimo bicchiere: ora so che hanno ragione. Alcuni degli ultimi eventi in ordine di tempo – altri verranno, peggiori – hanno avuto l’effetto dell’ultimo sorso, quello che toglie lucidità, padronanza di se stessi.
Purtroppo, in vino veritas. Le prossime righe, infatti, sono frutto di ubriachezza molesta.
Odio i castighi esemplari, odio la violenza delle istituzioni e quella dei potenti contro i deboli.
Gaza mi sbigottisce. Mi sconcerta che Lancet, la rivista scientifica più importante al mondo, ammetta che campi elettromagnetici a radiofrequenza possono indurre a distanza ischemie e malori alterando la pressione.
Evviva il buon uso della scienza: se si può fare, qualcuno lo farà o la sta già facendo.
Provo a pensare ad altro, poi apro il giornale: un altro calice amaro.
Il sistema fa il tifo per l’avversario. Dura la partita se hai l’arbitro contro. Che dire della durissima condanna inflitta al gioielliere langarolo, diciassette anni di carcere più un risarcimento di centinaia di migliaia di euro ai parenti dei due rapinatori da lui uccisi dopo una rapina?
Intendiamoci, le circostanze evidenziate dalle videocamere, sono contro il malcapitato. Dopo aver sofferto le minacce, estese ai familiari, e subìto la rapina (non la prima , poiché il suo è un mestiere in cui si vive pericolosamente ) ha sparato sui gentiluomini in fuga, abbattendone due.
Non era facile immaginare, per la sequenza dei fatti nudi e crudi, una piena assoluzione, ma la condanna- spietata, praticamente l’ergastolo per un uomo di sessantotto anni – lascia senza fiato.
Non solo non ha avuto il diritto di difendere casa, lavoro, familiari, ma deve subire il carcere e la rovina economica, giacché gli è imposto di risarcire le vittime, che non erano operai alla pressa o muratori al cantiere, ma malviventi.
Rapinatori caduti sul lavoro. Ora sappiamo – ma che ve lo dico a fare – che il criminale è trattato meglio, dalle libere, democratiche istituzioni, rispetto alla vittima.
Nulla di nuovo: ognuno può raccontare personali esperienze.
Nella fattispecie, l’aspetto più urticante è che è stata irrogata una condanna “esemplare”. Solo che l’esempio è contro le persone oneste: non ci si deve far giustizia da soli, pena il carcere e la rovina economica, ingiunge severo il potere.
Avrebbe senso se avessimo la ragionevole speranza di ottenere sicurezza, protezione, giustizia, da chi detiene il monopolio della forza “legittima”.
Al contrario, gran parte dei reati non vengono affatto perseguiti, né, in molti casi, vengono effettuate indagini. La recente riforma Cartabia ha allargato il campo dei reati perseguibili solo a querela di parte.
Comprendo la costituzione americana che permette il possesso di armi. Non siamo proprietà o sudditi dello Stato, abbiamo il diritto – il dovere nel caso di attacchi alla famiglia e al lavoro – di difenderci.
La piazza adiacente casa mia, in un tranquillo (una volta) quartiere piccolo borghese, diventa la sera bivacco di un’umanità dolente e luogo di spaccio e violenza. Non siamo più padroni- o almeno utenti- di ciò che era nostro.
Nelle ultime settimane ci è capitato di viaggiare spesso in treno: in due occasioni i ritardi non erano dovuti a disservizi ferroviari, ma all’intervento della polizia per allontanare persone (stranieri, ma che ve lo dico a fare?) che oltre a non pagare il biglietto, si comportavano con arroganza.
I nuovi padroni in azione, ed è certo che se qualche viaggiatore si fosse intromesso, sarebbe incorso nelle dure reprimende delle istituzioni.
Quali conseguenze subiranno quei passeggeri? Nessuna, come ladri, rapinatori, scrocconi. Spiace che l’età non ci consenta più di scegliere quel tipo di vita. Saremmo tenuti in palmo di mano dal governo, dal sistema giudiziario, dalla chiesa che usa i soldi degli incauti fedeli per finanziare le ONG che ci inondano di chi contribuisce a rendere invivibile la nostra Patria.
Così è, se vi pare. Se non ci sono reazioni, significa che va bene così. Cornuti e contenti.
Le pene esemplari sono a carico di chi non ci sta; conviene rassegnarsi, meglio ancora passare dall’altra parte, rubare, sfruttare, approfittare degli infiniti “buchi” del sistema. Si deve pur vivere, continuando a credersi “buoni” e placare la coscienza, per chi ce l’ha.
Bisogna essere contro ogni violenza, perbacco.
Poca o punta è però la condanna per le signorine e i signorini che- nel nome del rifiuto alla violenza “di genere” – hanno assaltato la sede dell’organizzazione Pro Vita.
Chi ha visto le immagini e ascoltato l’audio ha avuto la prova di un odio impressionante, di una furia distruttiva, di un linguaggio spaventoso.
Dove siete, voi, quelli della condanna al “discorso di odio”?
Ma che ve lo chiedo a fare? L’indignazione non è scattata, l’indice accusatore, le fronti aggrottate nel moralismo a fattura non si sono viste, né abbiamo ascoltato richieste imperiose di dure punizioni.
Elly Schlein dai molti passaporti, tra cui quello italiano, non ha fiatato, né l’armata giornalistica e televisiva ha condannato i fatti, i toni, gli slogan di morte.
Eppure, qualcuno ha apertamente rivendicato l’accaduto, più grave poiché prodotto a margine di una manifestazione antiviolenza.
Ho conosciuto in altri tempi, quell’ odio con il sangue agli occhi. So come ci si sente, nel mirino. Ma allora agivano in nome di un modello di società, di un’ideologia, di una rivoluzione.
Ora odiano chi difende la vita. Nichilismo furente. Per l’obitorio Occidente, prendere il primo incrocio a sinistra, o il secondo a destra. Con uno si arriva in anticipo, con l’altro occorre più tempo, ma la destinazione è la stessa.
Nel caso dei fatti di Roma, si tratta, evidentemente, di violenza “buona”; l’odio è nelle vittime, non nei carnefici, che agiscono in nome delle magnifiche sorti e progressive.
In tutto questo, impressiona –mi correggo, desta ilarità- che al governo, o meglio all’ amministrazione fiduciaria dell’Italia in conto terzi, ci siano personalità di orientamento conservatore.
Nessuna di loro conduce una battaglia culturale e ideale.
I conservatori (di che cosa, poi, tra le rovine?) sono progressisti in ritardo.
Hanno perso il treno, arrivano trafelati (quando arrivano) e si comportano come gli altri.
A parte i vostri interessi, che ci state a fare?
Il ministro della cultura, con gli occhialoni alla moda e l’aria del viveur appena uscito da uno chalet di Mergellina, si dispiace di non aver finanziato il film “C’è ancora domani “di Paola Cortellesi. Bello, ben fatto, a tratti struggente, ma il messaggio al signor ministro non dovrebbe piacere.
Non sarebbe meglio aiutare, finalmente, chi combatte la battaglia culturale a mani nude, pagando di tasca, in denaro, reputazione, emarginazione?
Ci è toccato applaudire Massimo Cacciari, unico a ricordare che l’odiato “patriarcato” colpevole di tutto non esiste da tempo e non c’entra nulla con l’assassinio di Giulia che ha scatenato l’oscena rappresentazione montata sulla sua tragedia.
I conservatori, una volta ancora, sono in ritardo, troppo occupati negli affari – lì sono bravissimi- o a ripetere a pappagallo gli slogan altrui per allontanare il sospetto che credano in quello per cui sono stati votati.
Il bello è che vengono ugualmente sbeffeggiati e attaccati.
Chi si fa pecora il lupo se la mangia, e fa bene.
Il fatto è che per difendere delle idee, prima bisogna averle. Che te lo dico a fare, ministro che affermi di vergognarti di essere uomo, e al tuo collega che farà insegnare l’educazione “affettiva” nelle scuole a una sua avversaria (avversaria?) politica omosessuale, unita civilmente a una donna. Un modello esemplare per i nostri ragazzi.
Se poi uno ha la disgrazia di essere cattolico, la frustrazione è massima.
Vescovi che finanziano rivoluzionari in disarmo riconvertiti in scafisti, l’uscita di una Bibbia LGBT “queer” (non sto scherzando) edita dai padri dehoniani, il tautologico “sinodo sulla sinodalità”, le esternazioni di Jorge Bergoglio che, tra una punizione e l’altra ai prelati non allineati, non smette di picconare duemila anni di dottrina.
Tutto si rovescia, anzi tutto cambia affinché nulla cambi e continuino a comandare gli stessi. Diverse le parole a uso della folla, uguali le oligarchie: la lezione del giovane Tancredi allo zio, il Gattopardo sconfitto.
La classe dominante, a differenza della donna “mobile” di Rigoletto, muta d’accento, non di pensier.
Il pensiero è conservatore, ma del potere. Non c’è che rassegnarsi, smettere di combattere contro vento, guardare lo spettacolo dalla finestra e ricordare, come gli hidalgos, i cavalieri spagnoli di ieri, “che la sconfitta è il blasone dell’anima bennata”.
Gran bel motto, ma non guasterebbe la vittoria, di tanto in tanto.
Non c’è bisogno di sperare per impegnarsi, né di ottenere risultati per perseverare, disse il principe Guglielmo il Taciturno. Dannato imbroglione idealista, ti ho creduto.
Avresti dovuto star zitto, se davvero eri taciturno.
Ma che te lo dico a fare?
Roberto PECCHIOLI
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