Nel quasi silenzio della stampa principale – in questo caso, la lodevole eccezione è La Repubblica -, il governo di Giorgia Meloni s’appresta a varare una modifica delle norme sul funzionamento dei nostri servizi segreti di portata enorme e che espone il Paese e le formazioni sociali che vi operano a un rischio d’inedite proporzioni.
Infatti, in base alla considerazione, secondo la quale, per contrastare efficacemente il terrorismo, non è necessario solo infiltrare agenti in quelle organizzazioni, ma consentire a questi stessi agenti di assumere ruoli “direttivi” nelle organizzazioni eversive, le nuove leggi prevederanno la totale impunità per gli atti che questi infiltrati fossero “costretti” a compiere per rendersi credibili agli occhi dei loro capi e dei loro militanti.
Un brutto “film”
Per gli amanti dei film di spionaggio, tutto ciò sembrerà, se non “normale”, quasi scontato.
Ma non si tratta di un film e non si è in America, in Inghilterra, in Israele, ma anche, volendo, in Francia e Germania; cioè, in stati dove le politiche di sicurezza sono certamente by-partisan, almeno negli obiettivi da perseguire, e dove le rispettive magistrature non hanno mai dato la sensazione di essere, neanche in parte e men che meno in una parte significativa per importanza e influenza, “politicizzate” in un senso o nell’altro.
Siamo in Italia, in quell’Italia repubblicana che ha alle spalle una triste e mai nitida storia in materia di servizi segreti e di amministrazione della Giustizia.
In questo contesto, dare tanto potere a strutture che dipendono del potere esecutivo costituisce un pericolo inaccettabile.
Di fatto, tanto per capirci e fare un esempio pratico, se passasse la riforma, i servizi segreti potrebbero infiltrarsi – anzi, potrebbero continuare a farlo, perché che già lo facciano è scontato – in tutti i movimenti che sono, da qualsiasi punto di vista, espressione del dissenso sociale.
Poi, con apposite strategie, magari favorite dal sistema mediatico e dell’informazione, i servizi potrebbero far ascendere ai vertici di queste formazioni i loro uomini.
Agenti provocatori
Infine, al momento opportuno – e “opportuno” non è sinonimo di “giusto”, in questi casi – indurre qualche elemento del tal gruppo o del tal partito a compiere atti sconsiderati, magari anche attentati, per poi passare tutte le informazioni alla magistratura e non solo far incriminare i “rei”, ma anche far sciogliere quelle formazioni.
Magari, formazioni con diverse “anime” interne e con l’infiltrato nel ruolo di capo della fazione più estremista.
Sembra la sceneggiatura di una brutta pellicola di “serie B”, ma chi non ricorda gli agenti di polizia inviati a “oscillare” un pulmino di loro colleghi, durante una manifestazione contro il”green pass” e poi ridicolmente difesi in Parlamento dall’allora ministro dell’Interno?
In un sistema politico a cui non crede più, ormai, un cittadino su due e chi governa lo fa in virtù della forza di una “banda organizzata” o, alla meno peggio, di un “gruppo di pressione” annidato nei gangli vitali delle istituzioni e dell’informazione, ci si troverebbe ben oltre la soglia dello stato e della dittatura di poliziesca.
Il confine tra la necessaria e importante raccolta di informazioni sulla realtà effettiva delle organizzazioni criminali di qualsiasi specie e la “creazione” a fini repressivi di questa stessa realtà è troppo labile per non indurre a grande prudenza, nella concessione di facoltà a chi opera nei servizi segreti di cui si rischia di pentirsi tardivamente.
Specialmente in Italia, dove la tentazione di usare i servizi per scopi poco puliti di politica interna è vecchia quanto gli stessi servizi e in cui la fiducia nel sistema giudiziario – in questo quadro ipotetico, unico vero argine ai soprusi eventuali – è veramente e motivatamente ai minimi termini.
Massimiliano Mazzanti
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