Giorgio Napolitano è morto – Come tutti i grandi protagonisti della vita della Repubblica, nel trapasso, è oggetto di lodi sperticate e di commemorazione unanime e senza distinzione di parte.
Curioso Paese, il nostro.
Nel 2023 hanno ceduto alla Natura due uomini a dir poco diametralmente distanti: Silvio Berlusconi e il capo dello Stato che fu al centro della sua defenestrazione nel 2011 e che aprì all’Italia la lunga stagione della “non democrazia”, dei governi retti sostanzialmente dal solo consenso del Quirinale, in una dimensione istituzionale a dir poco fuori dalla Costituzione.
Ciò non ostante, l’opinione pubblica – o meglio: i media che pensano di interpretare il pensiero dell’opinione pubblica – li celebre entrambi come “padri della Patria”.
Sarebbe come entrare in una chiesa e ascoltare gli “osanna” all’indirizzo di Dio e di Satana, dei santi e dei demoni.
Anche se di dei e di santi, nella politica italiana, è difficile parlarne.
Al centro della politica e del potere
Quel che è certo, è che Napolitano è stato al centro delle stagioni più complicate e misteriose della politica italiana, a partire da quel suo viaggio negli Stati Uniti – fortunatissimo viaggio – nel cruciale 1978.
Una “gita” densa di incontri che, già di per se stessa, smentisce la lettura “complottistica” su quell’anno che vide l’assassinio di Aldo Moro e che proprio la sua parte politica – il Pci e a seguire tutte le sigle che ne hanno ereditato elettorato e potere – vorrebbe ucciso da mani americane, con l’appoggio della P2.
In realtà, agli americani – e alla P2 – il connubio tra Pci e Dc, incarnato da Giulio Andreotti, andava benissimo, anche perché rassicurati, seppur parzialmente, da ciò che il presidente del Consiglio nazionale del “Biancofiore” aveva spiegato loro: la necessità di abbattere “per sfinimento” i comunisti, facendo condividere le scelte dure del governo – sul piano economico e sociale – in vista delle elezioni del 1979.
Qualcosa, però, andò storto, com’è ben noto.
E qualcun altro – non americano – vide in quella manovra pericoli che andavano evitati massimamente, richiamando all’ordine – e nel modo più duro e cruento – il proprio vassallo.
E di chi fossero vassalli i comunisti italiani nel 1978 “dir non è mestieri”.
Napolitano, allora, si spostò di lato, lasciando che il partito fosse governato non solo da un ormai esausto Enrico Berlinguer, il quale morirà sei anni dopo, ma lasciando il campo delle ripetute successioni ad altri grandi vecchi, come Alessandro Natta, e ai ragazzi delle Frattocchie: Massimo D’Alema, Walter Veltroni, ecc.
Ritagliò per se stesso un ruolo “super partes” che mai gli era appartenuto, essendo un capo corrente – i ben noti “miglioristi” -, in attesa di tempi migliori.
E questi vennero quando, tentato maldestramente il “colpaccio” di ascendere al “colle più alto” D’Alema, pur di non perdere la chance di conquistare il Quirinale, “baffino” si risolse a scommettere su di lui l’intera posta della partita.
Scacchista dentro le istituzioni
Poi, venne la gestione della seconda stagione del berlusconismo, in cui Napolitano dimostrò come, tra gli scacchisti delle istituzioni, nessuno avrebbe potuto competere con lui, avendo alle spalle le molteplici esperienze della presidenza della Camera, del Ministero dell’Interno, di una lunga militanza ai vertici palesi e occulti del potere.
Con la capacità dei grandi della tavolozza a quadrati bianchi e neri, capì subito quale fosse il “pezzo” debole di cui privare l’avversario – Gianfranco Fini -, facendo intendere all’allora capo della Destra politica che la successione al “cavaliere” sarebbe stata, dopo la sua caduta, praticamente automatica.
L’Italia cadde, invece, nelle mani dei “tecnocrati” e dei banchieri di Bruxelles e New York per oltre un decennio, mentre lo strumento della sua ultima, grande operazione politica vive da anonimo e dimenticato pensionato nel litorale romano.
Giudicare una così importante storia politica in poche righe non è mai facile, sia che la si abbia nel cuore sia che la si reputi indigesta per un pur forte stomaco: di certo, l’Italia del dopo-Napolitano è stata peggiore di quella precedente, ma, quel che è peggio, è che si tratta di un’Italia ancora immersa in quella stagione, dove di italiano – nel senso di chi ha in mano le redini del Paese – c’è veramente ben poco.
Massimiliano Mazzanti