8 settembre: La morte della Patria – Chissà se Giorgia Meloni dirà qualcosa, in merito alla ricorrenza nefasta dell’8 di settembre, oppure se userà al popolo italiano e a quello di destra in particolare la cortesia del silenzio.
Ovvio, l’“optimum” sarebbe che il premier parlasse e, magari, che il suo discorso fosse improntato a quanto Ernesto Galli della Loggia rilevò e sintetizzò già nel 1993, quando coniò l’espressione “morte della Patria”, poi ribadita come titolo di un suo libro sul tema nel 1996.
Però, è ben difficile che la ragazza-prodigio di Fratelli d’Italia si esprima in tal senso: troppo deciso sarebbe, nel caso, il profumo di Sovranismo che emanerebbe.
Un profumo che, da tempo, lei si preoccupa di attenuare.
D’altro canto, che l’8 settembre sia una ferita ancora aperta nelle carni della Nazione ce lo ricordano ogni giorno gli stessi governanti e gli stessi sostenitori del governo, quando, magari a mezza voce, ribattono a quanti sono per lo meno sorpresi – per non dire scandalizzati – dall’ultratlantismo dell’esecutivo che gli effetti e le conseguenze di Cassibile non si cancellano con un’elezione fortunata.
Il Generale Gioacchino Solinas
Dal punto di vista storico, dato che di ricorrenza storica si tratta, come non ricordare due figure emblematiche di quel giorno, quelle di due soldati che obbedirono agli ordini del re e che trassero le debite conseguenze di quella scelta. Il primo, è il generale Gioacchino Solinas, l’anima della così detta battaglia di Porta San Paolo a Roma, l’unica decente opposizione – dal punto di vista militare – alla decisione tedesca di annichilire il nostro Esercito allo sbando.
In piena buona fede, Solinas ritenne che la bandiera italiana dovesse essere difesa nel nome dei comandanti legittimi e legali dello Stato e che questi ultimi, in buona sostanza, incarnassero il concetto di Patria.
Certo, i tedeschi erano stati alleati fino a 24 ore prima, ma il governo di Pietro Badoglio perché mai non avrebbe dovuto e potuto scegliere di mettere fine al conflitto?
Dunque, schierò i granatieri contro i paracadutisti germanici e diede loro filo da torcere, salvo accorgersi, nelle settimane successive, che il suo gesto era stato funzionale solo all’ignominiosa fuga in Abruzzo e in Puglia della famiglia reale, con lo svilimento di ogni dignità militare e politica al cospetto dei nuovi padroni, gli alleati.
Dunque, dopo un breve colloquio col maresciallo Rodolfo Graziani, Solinas riemerse dalla clandestinità in cui dovette rifugiarsi dopo l’occupazione tedesca di Roma, aderendo alla Repubblica sociale Italiana.
Adesione tormentata e alla fine interrotta anzi tempo, ma senza alcun passaggio nelle file di una Resistenza utile solo a far splendere la luce di un totale asservimento agli interessi degli anglo-americani.
Il Capitano Carlo Fecia di Cossato
La seconda, luminosa figura di quel triste giorno è quella di Carlo Fecia di Cossato, capitano di fregata, sommergibilista, medaglia d’oro al Valor militare con 17 navi nemiche affondate.
Anche a lui l’8 settembre 1943 sembrò naturale obbedire agli ordini del re e condurre la sua unità, la “Aliseo”, in porti controllati dagli italiani e al riparo da rappresaglie tedesche.
E vi riuscì, combattendo e vincendo una ennesima battaglia navale tra le coste liguri e quelle della Corsica.
Fecia di Cossato accettò anche la così detta co-belligeranza, fino al giorno in cui il secondo nuovo governo, quello presieduto da Ivanoe Bonomi, non solo non giurò fedeltà al sovrano, ma ordinò la cessione di tutti i mezzi navali alle potenze alleate.
L’eroe, a quel punto, si rifiutò di obbedire agli ordini e fu accusato di insubordinazione. Il capitano chiese udienza a Umberto di Savoia, al fine di protestare le ragioni della sua insubordinazione, ma la sua domanda fu vana, facendogli capire come non solo i nuovi politicanti, ma anche la monarchia avesse gettato nella melma la bandiera, in un disperato – e altrettanto vano – tentativo di salvare sé stessa a scapito della Patria.
Impresa impossibile
A quel punto, anche Fecia di Cossato avrebbe voluto portarsi al Nord e unirsi alle altre forze della X Flottiglia Mas riorganizzatesi sotto il comando di Junio Valerio Borghese, ma l’impresa, trovandosi a Napoli, sarebbe stata impossibile.
L’intrepido affondatore di navi nemiche, allora, prese carta e penna e, rivolgendosi alla madre, scrisse parole struggenti, spiegandole come, ormai, il suo posto non potesse che essere al fianco dei suoi marinai del glorioso “Tazzoli”, caduti in combattimento, nel corso della prima, sfortunata missione senza di lui, appena promosso comandante di squadriglia.
Fecia di Cossato, il cui onore personale era adamantino e intonso, si fece carico della vergogna dei suoi superiori e dei sovrani, ponendo fine alla sua vita.
E per qualche misteriosa ragione, almeno dopo la morte, riuscì a raggiungere il Nord, dato che, nato a Roma e morto a Napoli, ha trovato la sua ultima dimora a Bologna, dove la lapide della sua sepoltura si erge ancor oggi a monito di quanti pensano che si possa salvare se stessi a discapito della Patria.
L’8 di settembre 1943, migliaia e migliaia di italiani si accorsero subito che quel che stava accadendo era tradimento, non ostante la legalità formale di tutti quei vergognosi avvenimenti e si sarebbe potuta ricordare la data, citando alcuni di loro.
Però, è nel tormento di uomini come Solinas e Fecia di Cossato che l’espressione “morte della Patria” assume e illustra pienamente il suo significato, illuminando anche i necrofori tutt’ora esistenti.