Africa Addio – Pubblichiamo uno spaccato del Sud Africa degli anni ‘70 raccontato da Enrico Maselli, militante romano che in quegli anni viveva a Johannesburg.
Il Boeing delle Linee Aeree Sudafricane atterra all’aeroporto Jan Smuts di Johannesburg, 16 ore dopo aver decollato da Roma, passando per Lisbona e Luanda; è il 21 Aprile 1970. Ciò che mi si apre davanti agli occhi è incredibile: una città modernissima con grattacieli, edifici in vetro, parchi ben curati, vie costellate di negozi e banche lungo le quali si muove una folla dai tanti volti: europei; africani; mulatti; asiatici.
Le strade, ampie e ben pavimentate, vedono scorrere macchine prevalentemente inglesi e giapponesi, in un traffico ben ordinato; anni luci distante da quello caotico e rumoroso di una Roma che mi sono lasciato alle spalle con qualche rimpianto.
Un biglietto di sola andata
La Città Eterna festeggia oggi il suo 2.723° compleanno ma io sono a 10.000 km di distanza, con un biglietto di sola andata; posso solo guardare avanti. Ad attendermi il mio amico Roberto, partito due mesi prima, ancora sotto l’effetto della sbornia, consumata la sera prima, in una birreria tedesca, a festeggiare l’81° compleanno di Adolph Hitler, fra canti, braccia tese e Sieg Heil urlati a voce piena.
Si gli ebrei si sono fatti vedere, nel Paese contano tantissimo pur essendo pochi nei numeri ma la polizia li ha contenuti senza problemi con un occhio di simpatia verso i festeggianti. Non vi è la Digos a prendere nomi e quelli di Repubblica a scattare foto ma solo Afrikaners in divisa con occhi divertiti e compiaciuti. Sono filotedeschi dai tempi della Seconda guerra mondiale quando, a decine di migliaia, furono internati dagli inglesi poiché non volevano entrare nel conflitto a fianco degli Alleati. A riflettori spenti, molti di loro scenderanno le scale del locale per unirsi ai cori di Erika e della Panzerlied.
Africa bianca
Sono in un altro mondo, quello che avevo sognato di visitare dopo aver visto il film cult Africa Addio, del regista Jacopettti.
Strana cosa l’Africa Bianca in un continente nero sferzato da un uragano di violenza che aveva già travolto Kenya, Algeria, Congo, Zanzibar ed ora stava soffocando, nel sangue e nella miseria di una carestia senza precedenti, il tentativo di secessione del Biafra dal governo centrale nigeriano.
“Qui non succederà mai “, sentivo ripetere nei pub e nelle discoteche di un Sud Africa che, forte delle sue ingenti risorse minerarie e di un’economia avanzata, si sentiva al sicuro per i “prossimi cento anni”; ben protetto, geograficamente, da due oceani e da una cintura di stati amici al nord: la Rhodesia di Jan Smith e le provincie d’oltremare portoghesi di Angola e Mozambico, guidate dal governo di Salazar.
L’illusione durerà solo 4 anni; verrà spazzata via dalle conseguenze politiche di un colpo di stato militare a Lisbona, eseguito da militari di sinistra, aderenti al Movimento Des Forcas Armadas ma concepito nei circoli massoni del Council On Foreign Relations, il governo invisibile nord americano, il cui uomo sul posto si chiama Henry Kissinger.
Ho vent’anni compiuti da un mese, sto iniziando a vivere l’avventura della vita: la prima di altre che seguiranno, poiché così hanno deciso gli Dei per me.
Il fascino di Johannesburg
Johannesburg è pazzesca, irreale, una piccola New York costruita dove meno te lo saresti aspettato, mi affascina, mi fa sentire subito a casa, non provo alcuna crisi di rigetto per essere così lontano dal mio quartiere, del resto il mio migliore amico è già al mio fianco e l’altro per arrivare: l’amore per il proprio territorio è legato alle amicizie che hai, se queste fanno il salto con te allora Piazza Irnerio si commuta in Hillbrow , dove prendo possesso del mio primo appartamento.
Non navigo nell’oro ma ho un sogno fra le mani in fase di realizzazione. Certo mi manca da matti la mia ragazza e le partite della Roma ma, in compenso, non ho l’angoscia del citofono che alle sei di mattina ti annuncia la perquisizione in arrivo. Certo mi manca la militanza davanti alle scuole ma si tratta solo di sapersi adattare, la politica si può fare in mille altri modi.
E poi, riprendere fiato dopo una lunga stagione di scontri intensi per le strade di Roma, ci sta. Una stagione iniziata, nell’ottobre 1969, davanti al liceo Pantaleoni e proseguita al Mamiani, al Dante, al Virgilio, al Fermi per raggiungere il suo apice nei duri scontri di Ponte Matteotti, ove, nel marzo 1970, un centinaio di “katanga” della Statale di Milano, in tenuta “da combattimento”, erano intervenuti per dare una mano ai compagni di Roma in seria difficoltà nell’affrontarci nelle piazze.
Gli scontri di Ponte Matteotti
Nei numeri lo scontro in essere era alla pari, tanti loro, tanti noi; una decina di ragazzi di Ordine Nuovo come prima linea ed un centinaio di militanti missini alle spalle. Lo scontro lo iniziammo in tre, fra cui un camerata che, nel tempo, diventerà un neurologo di fama mondiale, conosciuto, da noi, come “Ercolino”.
Volarono i primi sassi che avevo raccolto da un cantiere lì vicino. I primi andarono a vuoto, gli altri fecero danni con teste insanguinate ed urla di dolore. Furibondi, caschi in testa e spranghe in mano, i katanga partirono all’attacco per poi fermarsi allibiti dal fatto che fossimo solo i tre ad affrontarli poiché i missini si erano dati alla fuga. Forse pensavano fossimo armati. Nell’attimo d’incertezza noi li caricammo violentemente, aprendo varchi nelle loro fila per poi ritirarci in buon ordine.
Nel farlo finisco in bocca ad una carica dei carabinieri, per evitarla torno indietro per trovarmi circondato dai compagni. Spalle al muro difendo cara la pelle ma sono troppi, uno mi arriva da dietro e mi colpisce al ginocchio facendomi crollare a terra; mi rialzo e penso solo a proteggermi dai fendenti in arrivo; mi colpiscono alla testa e sento il sangue scivolarmi sul volto; ci siamo, non ho via di scampo, tanto vale cadere in piedi. Con la coda dell’occhio vedo due camerati passarmi vicino, uno scappa subito e per questo verrà “punito” con la sua 500 incendiata.
Nel tempo diventerà un noto avvocato ma con la stigma indelebile “del coniglio”. L’altro mi si avvicina urlandomi “sporco fascista”, prendendomi a schiaffi, il tanto che basta per creare la confusione giusta per tirarmi fuori dalla mischia ed affidarmi ad una macchina di passaggio che mi porta al vicino ospedale di Santo Spirito.
In ospedale
Me la cavo con 12 punti in testa ma poteva andare molto peggio. La cosa comica è che, portato in corsia, mi ritrovo, come compagni di letto, quelli che io stesso avevo ferito: mi consolo sono almeno 10: ci siamo battuti bene. Riconosciuto, un katanga, col la testa fasciata come la mia, mi si avvicina offrendomi una sigaretta, annuendo che terra la bocca chiusa, in rispetto di quanto ho fatto da solo o quasi.
Mi chiede solo: “avevi una pistola?”, rispondendo no, si allontana ridendo e scuotendo la testa incredulo. Roma non era Milano, questo lo aveva capito bene! Poi, a complicare le mie preoccupazioni, arriveranno una decina di camerati di ON a trovarmi, sputtanando completamente la mia vera identità ma ammonendo i compagni che se mi avessero toccato, sarebbero ritornati la mattina dopo a saldare i conti.
Passai una notte tranquilla con inimmaginabili strette di mano al momento di essere dimesso con la testa rasata ed alcuni cerotti a coprire le ferite. L’eco degli scontri fu ripreso ampiamente dal Messaggero, il quotidiano di Roma, con la faziosità di sempre. Una foto in prima pagina in cui, in tre, circondati da decine di avversari, venimmo descritti come “picchiatori fascisti” in azione contro un “pacifico” corteo di studenti medi, con tanto di caschi e tubi in mano.
Ritirata “strategica”
Per chiudere la storia, la sede della Giovane Italia, in via Firenze, si risvegliò con scritte cubitali sui muri adiacenti la sede, del tipo “non si scappa di fronte ai compagni”, seguito da ascia bipenne, a stigmatizzare la viltà dimostrata “in combattimento”, cosa che porterà a feroci scambi di opinioni fra militanti e quella dirigenza che ne aveva ordinato la “ritirata strategica”.
Mio padre era terrorizzato dal fatto che potessi essere arrestato, ora almeno poteva dormire tranquillo, addolorato ma tranquillo. A vent’anni la vita te la reiventi senza problemi, soprattutto se non ti mancano i soldi in tasca e… le ragazze, che poi si chiamassero Susan o Nicky invece di Anna o Maria era irrilevante, visto che gli amici di sempre erano al tuo fianco.
Ci consideravamo semplici camerati in trasferta, con una bipenne sempre vicina al cuore.
“Sviluppo separato”
Certo il Sud Africa aveva anche dell’anacronistico che noi “politici” sapevamo ben intuire, Ci stavamo alla grande ma avevamo gli occhi per capirne alcune palesi idiozie di cui avrebbero pagato puntualmente il conto. Nel Sud Africa bianco vigeva il tanto deprecato apartheid, definito, impropriamente, come politica segregazionista.
In realtà Apartheid significava sviluppo separato. Non era una dottrina razzista ma paternalista, alimentata dalla visione calvinista dell’uomo europeo che doveva diffondere “il verbo” fra i “kaffirs”, i senza Dio. L’ego sum via, vita et veritas non mi è mai piaciuto. Ho sempre rispettato le visioni religiose altrui. È vero gli africani stavano meglio che altrove, non vi erano vagabondi fra le strade, il lavoro abbondava, l’assistenza medica era gratuita anche per loro ma non mancavano delle idiozie colossali che si sarebbero potuto evitare, mantenendo un occhio aperto sui possibili sviluppi negativi.
Agli africani non veniva concesso il diritto alla proprietà terriera ma solo di affittarla: miopia totale che impediva la nascita di una borghesia di colore che avrebbe avuto tutto l’interesse a mantenere lo status quo invece di farsi irretire dai proclami delle organizzazioni rivoluzionarie come l’ANC (African National Congress) di Mandela o il SACP (South African Communist Party) di Joe Slovo.
Poi l’assurdo delle panchine riservate agli europei e no. Ogni mattina era un movimento continuo di balie di colore, con due bambini attaccati al corpo, il proprio figlio e quello bianco in cura. Su quale panchina del parco si sarebbero dovute sedere? Era il moccioso bianco, che avrebbero difeso come se fosse stato il proprio, a fare la differenza o no? E poi gli ascensori per colore di pelle. Io trovavo ridicolo pur divertendomici sopra; la mia idea di razzismo era un’altra; diversi sì ma uniti nello stesso destino.
L’Immorality Act
Infine, l’Immorality Act, la legge che proibiva i rapporti sessuali fra bianchi ed altre razze; comprensibile per evitare la proliferazione di “coloured”, cioè meticci ma ipocrita in quanto, ad ogni possibile occasione, i bianchi sudafricani si recavano nel vicino stato della Swatziland o dell’allora portoghese Mozambico per dar sfogo alle loro passioni sessuali con le ragazze di colore.
Fu un’avventura la mia durata un anno, per poi replicarla, anni dopo ma in circostanze molto diverse, in quanto inseguito da un fantasioso mandato di cattura emesso dal giudice Luciano Violante; il nostro aguzzino giudiziario di quegli anni; un vero Torquemada rosso messo a capo dell’inquisizione antifascista, nonostante il suo passato nel PCI; cosa possibile solo in Italia.
1975
L’aero che atterra a Johannesburg, a metà settembre 1975, proviene, questa volta, non da Roma ma da Bruxelles ed a scendere non è più il ragazzo spensierato del 1970 ma un’altra persona resa più matura da un anno di latitanza passato negli USA, con la parte più difficile vissuta a New York. Davanti ho l’ignoto da affrontare con gli unici 500 dollari che ho in tasca.
Ma gli Dei mi sorridono ancora una volta; trovo velocemente un lavoro e la tranquillità fisica e mentale di un appartamentino tutto mio, ove finalmente riuscire a raccogliere le idee e venire a capo di quel senso d’incertezza che mi si è cucito sulla pelle prima di ogni controllo passaporto negli scali in cui ho dovuto sostare.
In Sud Africa non vi è estradizione per reati politici; posso ripartire con la mia vita e guardare avanti senza paura.
Sono passati solo 4 anni da quando ero partito la prima volta ma il Paese che mi ritrovo davanti è fortemente cambiato nell’aspetto e nell’umore politico che si respira. Johannesburg è notevolmente cresciuta nelle strutture, rendendola sempre più moderna con nuovi grattacieli e centri commerciali mentre i negozi hanno un look decisamente più europeo.
Anche l’Apartheid è scesa di tono; via le panchine e gli ascensori separati mentre sui bus possono salire anche gli africani che si possano permettere il biglietto, 10 volte più costoso di quello dei mezzi a loro riservati. Alcuni alberghi sono diventati multirazziali, sempre che ti possa permetterne il soggiorno; in pratica il censo comincia a limare le differenze del colore della pelle.
Angola e Mozambico
Ma a cambiare il panorama tutto è quanto sta avvenendo in Angola e Mozambico, finiti in mano nemiche dopo l’abbandono precipitoso dei Portoghesi. Il “bastione bianco” di solo qualche anno prima è in frantumi, a reggere la pressione devastatrice del comunismo avanzante è rimasta solo la piccola ma tenace Rhodesia, circondata da confini ostili impossibili da controllare tutti con un esercito di soli 15.000 uomini operativi e 70.000 mobilizzabili.
Il Sud Africa, forte di 5 milioni di bianchi residenti, si preparava a quella guerra, interna ed esterna, che mai avrebbe immaginato possibile. Seguo gli eventi con l’attenzione che solo chi ha una mente esercitata può avere e mi preparo a fare la mia parte, se richiesta. La disintegrazione delle strutture civili e militari e l’ascesa al potere di leader marxisti nelle ex provincie di oltre mare di Lisbona, con il supporto di decine di migliaia di ascari cubani e consiglieri dell’Est Europa e della Cina, porterà il Sud Africa in un’imprevista condizione di assedio dall’esterno, per contrastare il quale, il governo di Pretoria dovrà cominciare a dar fondo a tutte le risorse, economiche militari ed umane disponibili.
Assedio marxista
Premuto a nord ovest dai guerriglieri dello SWAPO (South West Africa People’s Organisation), aiutati da 60.000 cubani e dalle forze regolari angolane dello FAPLA (Forcas Armadas Popular Libertaçao de Angola); infiltrato a nord est dai terroristi armati dell’ANC, con il supporto del FRELIMO (Frente Libertaçao de Mozambique); il Sud africa diventerà una nazione prossima al soffocamento, costretta a spendere oltre 2.000 miliardi di dollari l’anno per la Difesa ed a dover emettere un decreto che possa estendere la chiamata alle armi anche ai cittadini europei, di ogni nazionalità, che siano residenti nel Paese da oltre due anni ed abbiano età inferiore ai 26 anni. Ciò riguarderà anche i 55.000 italiani residenti.
Molti risposero arruolandosi volontariamente altri preferiranno andarsene. Siccome sciacalli ed avvoltoi appartengono alla stessa razza; alla pressione militare di Mosca si affiancherà quella della Casa Bianca con tutta una serie di pesanti sanzioni economiche; a conferma di come i loro interessi fossero coincidenti nell’indebolire il governo bianco. Una storia nota dai tempi del Congo e dell’Algeria. Fuori gli europei per impadronirsi della rotta strategica del Capo e delle ingenti risorse minerarie presenti.
L’Operazione Savannha
Nell’estate 1975, una mossa a sorpresa potrebbe ribaltare il tavolo da gioco; scatta l’Operazione Savannha. Una colonna blindata sudafricana, formata da poche centinaia di bianchi ed un migliaio di soldati del FNLA (Frente Nacional del Libertaçao de Angola), rifugiatisi nell’allora Sud West Africa (oggi Namibia) per sfuggire alla cattura dei cubani, irrompe nel sud dell’Angola ed avanza, combattendo, fino a raggiungere la periferia di Luanda, la capitale.
Qui la colonna si ferma in attesa in attesa del via di Pretoria per chiudere i giochi e spingere cubani e i filorussi a mare. Ordine che non arriverà mai. La Casa Bianca, timorosa di una possibile vittoria del Partito Democratico alle prossime presidenziali, nega il suo appoggio finale all’operazione e così farà la Nigeria, la Costa D’avorio e lo Zambia che pure ne avevano sollecitato l’intervento militare.
Il governo sudafricano, temendo una trappola diplomatica, ordina il ritiro delle truppe verso sud.
Inizia una lunga guerra di attrito lungo il confine meridionale dei due paesi che si protrarrà fino agli accordi di pace di New York, firmati nel dicembre 1988 che vedranno truppe dell’ONU intervenire nei territori del Sud West Africa, già protettorato sudafricano dal 1919, per garantire la tenuta di libere elezioni generali che sanciranno la nascita di un nuovo Stato indipendente: la Namibia.
Parallelamente i cubani si ritireranno dall’Angola e torneranno a casa, lasciandosi dietro l’umiliazione di ripetute sconfitte sul campo ed i corpi di 8.000 caduti.
Il 16 giugno 1976
Per i bianchi si era comunque avvicinato il momento della verità, essendo certo che gli eventi esterni avrebbero favorito lo scatenarsi di disordini interni; facilitati dal fatto che l’aumento delle spese militari aveva inciso negativamente sugli stanziamenti in atto per il miglioramento delle condizioni di vita dei nativi di colore; condizioni che rimanevano, in ogni caso, fra le migliori di tutto il continente africano.
Il 16 giugno 1976, quanto temuto si avvera.
Nella township di Soweto, enorme agglomerato urbano per soli negri, posto a sud di Johannesburg, alcune centinaia di alunni delle scuole medie danno vita ad una marcia di protesta contro il Dipartimento per l’Educazione Bantù, colpevole di aver reso obbligatorio lo studio dell’Afrikaans, seconda lingua nazionale, di origine boera; considerata estranea alle tradizioni africane.
I 50 poliziotti presenti, colti di sorpresa, finiscono in preda al panico ed esplodono alcuni colpi di arma da fuoco sulla folla che risponde con una fitta sassaiola. A terra rimane un ragazzo di 13 anni, Hector Petersen, colpito a morte da un proiettile.
Violenti disordini
La reazione dei compagni sarà rabbiosa ed i disordini inizieranno ad estendersi con rinnovata violenza.
Nel corso della giornata finiranno in cenere 147 vetture; rasi al suolo 130 edifici ed i morti centinaia. Altre 60 vittime seguiranno nei giorni successivi con la protesta che si è estesa alla provincia del Capo. Ancora una volta il comportamento delle forze di polizia si dimostrerà fatale nella sua impreparazione nell’affrontare manifestazioni di protesta, come già successo a Sharpville nel marzo di 16 anni prima.
La risposta pronta ed intransigente del governo, aiutata dall’indifferenza della potente comunità Zulù verso l’accaduto, consentirà di riprendere il controllo dell’ordine pubblico del Paese tutto nel giro di poche settimane ma non potrà impedire l’afflusso di nuove leve giovanili, culturalmente più preparate, verso le organizzazioni militanti clandestine dell’ANC e del SACP, affiancate dal nascente Pan African Congress.
L’etnia Xhosa
La morte “misteriosa” di un’attivista nero per i diritti civili, Stephen Biko, avvenuta il 18 agosto 1977 in una cella del posto centrale di polizia di Port Elizabeth, incrementerà lo stato di tensione che comincia ad avvertirsi in Sud Africa con particolare tensione nella provincia industriale del Transvaal ove maggiore è il livello di urbanizzazione degli africani e, predominante, la presenza dell’etnia Xhosa, quella maggiormente legata a Mandela.
La vita continua, apparentemente come prima, ma, nel cruscotto, di ogni macchina guidata da un bianco, si trova ora una pistola con il colpo in canna; la mia non fa eccezione. Presto dovrò imparare a convivere con un’arma sotto l’ascella, come una seconda pelle; in tre occasioni dovrò usarla.
Profondi contrasti sociali
Il Sud Africa era già terra di profondi contrasti sociali. Bisognava armonizzare il volere di quattro entità razziali ben definite (europei; africani; asiatici; meticci), di cui una, quella africana, frammentata in almeno altre 8 etnie tribali, spesso divise da odi ancestrali. Gli scontri sanguinosi fra Zulu e Xhosa, del 1984-85, avrebbero dovuto far intuire come i problemi locali non potessero essere riconducibili ad un contrasto radicale fra bianchi e neri, alimentato dalla politica governativa dello “sviluppo separato” (Apartheid) ma che la posta in gioco fosse ben altra, con Mosca e Washington nella cabina di regia.
La cabina di regia
Troppo strumentale il tentativo di attribuire agli eccessi della polizia, che comunque ci furono, intera responsabilità delle violenze nelle townships, omettendo di notare come, dietro l’allargamento, a macchia d’olio, degli scontri vi fosse la regia di strutture sovversive, ben organizzate come l’ANC; il PAC; il SACP e l’AZAPO (Azanian’s People’s Organisation); rafforzate dal supporto internazionale di lobbies dedicate all’applicazione della strategia di destabilizzazione progressiva del continente nero come il Council on Foreign Relations di Rockfeller ed il Word Council of Churches, tutte di orientamento mondialista.
Logica velenosa alla quale non si sottrae neanche la Chiesa Cattolica, nonostante la maggior parte degli italiani residenti fosse a favore di quanto venisse deciso a Pretoria ed non abbia mai avuto un buon rapporto con il vescovo locale, con funzioni religiose lasciate volutamente deserte.
Violenze e intimidazioni
Bruciare scuole ed edifici governativi; uccidere avversari politici, spesso con pratiche macabre come un copertone intriso di benzina, attorno al collo e poi dato alle fiamme; intimidire le famiglie dei poliziotti di colore, rei di “collaborazionismo”; istituire tribunali popolari; assaltare le caserme con armi automatiche e granate; mettere le bombe nei supermercati, costituiva parte di un piano preordinato per impadronirsi del potere con la forza e non certo atti di “ribellione spontanea”, come la stampa occidentale cercava di proporre.
Guerra tra etnie
Arriviamo al 2 febbraio 1990, Nelson Mandela viene liberato dalla villa in cui era detenuto, a Robben Island, per crimini politici e non altro; lo stato di emergenza abolito; dovrebbe essere l’inizio della pacificazione, come anticipato dalla stampa di tutto il mondo, invece si scatena l’inferno. Nella provincia del Natal si riaccendono gli scontri fra l’Inkatha, l’organizzazione politica di maggioranza degli Zulu e gli appartenenti ai movimenti dell ‘UDF (United Democratic Front) e del Cosatu (Congress of South African Trade Unions). I morti sono centinaia che portano ad oltre 500 le vittime negli sconti intertribali, degli ultimi 5 anni.
È guerra aperta ma non fra bianchi e neri, bensì fra africani di diversa etnia e credo politico. Gerarchica, monolitica, antimarxista l’Inkatha; progressisti, multirazziali e filocomunisti gli altri.
Un baratro incolmabile di differenze politiche e culturali.
Ad agosto i disordini si spostano nel Transvaal ove aderenti all’ANC, di origini Xhosa, tentano di espellere i rappresentanti Zulu da Soweto; la reazione brutale ma legittima degli Zulu provocherà altre 500 vittime.
La politica di “apertura totale”
Mentre eccidi, saccheggi e stupri si moltiplicano, nella comunità bianca cresce l’ostilità verso la politica governativa di “apertura totale” voluta dal presidente in carica, De Klerk e chiede la possibilità di potersi esprimere attraverso un referendum consultivo mentre aumentano le adesioni verso le formazioni politiche della destra conservatrice (Conservative Party ed Herstigte National Party) e di quella più oltranzista (Africaner Weerstandsbeweging e Boer Front). L’ipotesi di una rivolta armata degli europei, fiancheggiata da ampi settori delle Forze Armate e della Polizia appare sempre più probabile, diventando l’incubo per i sonni del Vate Mandela e del traditore De Klerk.
Il referendum si terrà nel 1993, in un clima di enorme pressione e di ricatto emotivo sugli elettori, da parte della stampa governativa e dei mezzi di comunicazione che fanno capo ai potentati economici in mano all’Anglo American Corporation dell’ebreo convertito Harry Hoppenheimer.
Il timore della guerra civile
Lo scopo dichiarato è la vincita del SI sotto lo spettro minacciato di un incombente guerra civile che devasterebbe il paese. Menzogna totale poiché le truppe in campo, supportate dagli Zulu, in cambio di concessioni sulla provincia del Natal, chiuderebbero la partita in una settimana e per sempre. Con le organizzazioni della guerriglia allo scoperto sarebbe un semplice tiro al piccione, considerando anche i molti soldati di colore che hanno un conto aperto con loro. Parliamo di truppe scelte; indurite nei combattimenti in Angola. Ma non andrà così.
Il referendum darà ragione a De Klerk con il 67% dei suffragi e per la comunità bianca sarà un imperdonabile suicidio annunciato. Una vergognosa ceduta delle armi senza combattere. Una vittoria improbabile, concessa solo per difendere i propri privilegi borghesi. Non riuscirò mai a perdonarglielo.
Nelson Mandela Presidente
Il 9 maggio 1994 Nelson Mandela diventa presidente della Repubblica Sudafricana, ribattezzata Azania ,nel pittoresco intendere degli africani ed annuncia l’inizio di un lungo periodo di stabilità e prosperità economica, all’ombra della rinnovata armonia razziale. La realtà è un’altra cosa.
Oggi il Sud Africa è una terra tormentata dalla corruzione, dalla miseria e dall’illegalità, mentre il potere reale è finito nelle mani dei trafficanti di droga nigeriani che si sono impadroniti delle strade di Johannesburg, facendola diventare la città con il più alto tasso di criminalità del mondo. Si cammina, nelle strade in cui mi muovevo senza problemi, in mezzo a chiazze di urina e di vomito mentre tappeti di siringhe usate ricoprono i marciapiedi presidiate da prostitute di ogni colore.
Almeno ci ho provato
Ho amato questo Paese come fosse la mia vera Patria, forte del detto che “la tua Patria è ovunque vi sia gente che combatte per le tue stesse idee”: l’ho amata al punto d’indossarne la divisa ed essere pronto a morire per essa ma non è servito a niente. L’illusione di qualche anno poi il nulla di un mondo che ti cambia, sotto gli occhi di un romantico fallito che non riesce a fare i conti con la realtà vera, quella che ti fa schifo…ma che sta la a dirti come sei fuori tempo, anacronistico pericoloso nei tuoi sogni.
Tu non esisti…noi si. Ma i mei sogni restano nell’immaginario di ciò che poteva essere ma non mai è stato. Almeno ci ho provato.
Africa Addio.
Enrico Maselli