La via giudiziaria al progre-totalitarismo – Riflettevo in questi giorni al caso di quei ragazzi, appartenenti al Veneto Fronte Skin, condannati in primo grado dal tribunale di Como a severe pene detentive per aver letto, per pochi minuti, durante una conferenza pubblica, organizzata nei locali di un’associazione filo-immigrazionista, un comunicato che denunciava le conseguenze, sociali e politiche, del fenomeno migratorio.
La loro assoluzione piena in appello – il fatto non sussiste, nel senso che non è stato ritenuto esistere alcun elemento penalmente rilevante nella loro condotta – induce ad alcune considerazioni.
Esercitando la professione da – ahimè – tanti anni, so perfettamente che i ribaltamenti dei giudizi da un grado all’altro non sono infrequenti, ma il caso in esame merita rilievo.
Uno stesso fatto, due sentenze opposte
Il ribaltamento non è avvenuto per una diversa valutazione di una prova – documentale, testimoniale, peritale – o per una diversa considerazione dell’elemento psicologico di chi ha realizzato il fatto; bensì per una opposta valutazione della rilevanza penale di un comportamento ben definito e incontestato.
È umanamente, e statisticamente, plausibile che uno stesso fatto possa essere diversamente interpretato nella coscienza di due giudici diversi; ma la coscienza del giudice dovrebbe ubbidire, prima che alle sue inclinazioni, alla legge e ai criteri di giudizio che debbono regolarne le decisioni.
Accertare il reato vs. costruirlo
Si assiste invece a un fenomeno che un insigne giurista, il prof. Filippo Sgubbi, denunciò in un volume di recente pubblicazione – Il diritto penale totale – in cui, fra le varie critiche mosse contro le storture della giustizia penale, emerge quella, davvero centrata, di come a volte il pubblico ministero organizzi il suo impianto accusatorio.
Ossia, non – come dovrebbe – cercando fra le carte e i documenti del suo fascicolo la prova di fatti-reato denunciati ma, al contrario, creando il fatto-reato; «è l’accusa che costruisce la colpa, non viceversa».
Ossia piegando i fatti in una forma che potremmo definire “dialettica”. Ciò accade di preferenza quando lo zelante procuratore di turno rivolge la propria attenzione su particolari categorie sociali e politiche o su fatti ritenuti “sensibili”; ecco allora che, magicamente, il fatto diviene un accessorio della colpa, questa essendo già esistente in natura all’interno di quella categoria di soggetti o di condotte.
Basteranno le riforme?
Il processo contro quei ragazzi rientra in pieno in questa casistica; ed è stentata soddisfazione constatare che alla fine giustizia, vera, è stata fatta. Perché il problema rimane in tutta la sua drammatica portata, considerati i disastri che approccio ideologico, cultura del sospetto e uso strumentale del processo, sono costantemente in grado di provocare.
Alcune riforme, sensate, sono in cantiere; la prima delle quali è la separazione delle carriere. Si cominci allora da qui, senza più tergiversare; rimanendo però ben consapevoli che il cambiamento vero dovrà partire dalla testa, dalla mentalità, dal riacquisto del senso del dovere e della prudenza; che ogni magistrato – allo stesso modo di un militare – dovrebbe possedere e concretamente dimostrare – come un ufficiale prima di uscire dall’accademia – prima di indossare la toga.
Gianni Correggiari